lunedì 17 agosto 2009

I commenti del prof. Mandarino

Come vi dicevo mesi fa, da qualche tempo ho l'onore di vedere commentate le poesie del mio libro dal Professor Lorenzo Mandarino, scrittore e docente di lettere di Napoli.
Non ho parole per l'onore che ha deciso di dedicarmi e per il suo apprezzamento.
Oltre a questo però mi preme sottolineare che con la sua acuta sensibilità è come se ogni volta spiegasse anche a me stessa, che ho scritto le poesie, PERCHE' le ho scritte.
E ci riesce.
Le propongo anche a voi, man mano, ancora senza parole per il regalo che mi sta facendo.


Tra le tue braccia

Il viaggio che la donna –poetessa- compie tra le braccia dell’amato (“le tue braccia”) trascende il tempo, pur tenendosi legato alla solida realtà del vivere (braccia, stelle, volti, sorrisi, sguardi, nebbia, sussurri, parole, musica, lancette, casa, mente, piede, bocca). Tutti questi però sono sentiti come elementi friabili, fragili, effimeri, che, pur veri, si sciolgono nel silenzio dove è sospesa l’anima nella durata della concretezza di un abbraccio. La continua ricerca di un mondo fuori tempo e fuori spazio è percorsa dalla nostalgia delle forme concrete del vivere, che la poetessa sa di dover purtroppo lasciare se vuole viaggiare nel mondo della sua anima. Per questo oscilla insicura fra due mondi, ostinata, tuttavia, ad amarli entrambi.



Punto di non ritorno

Dall’amore nasce il terrore di non riuscire più ad esistere. L’amore è capace di coinvolgere la stessa esistenza sciogliendola dentro di sé fino ad annullarla, diviene padrone di una felicità che si desidera, ma anche si teme. E’ tuttavia una felicità creata dalla speranza ed appare lontana, evanescente, fragile che soltanto il desiderio (aspirazione dell’anima) tende a rendere concreta, seppure sottile “come un velo di tulle”. Il componimento rappresenta un’oscillazione continua fra il mistero aperto sulla propria vita e la concretezza del proprio essere, qui rappresentato da “l’abisso dell’amore.”



Notturno

Quando la notte non è terrore e il suo buio è un invito a scoprire cosa c’è oltre la luce del giorno, in una navigazione sull’orlo dell’abisso che separa i due mondi: quello dell’al di qua con tutte le sue magnificenze, ansie, inquietudini e quello dell’al di là che, liberato dalle immagini della realtà, offre alla mente e all’anima la gioia di un viaggio nel mistero e nella gioia dell’essere.

Gocce di felicità

Nostalgia di una gioia lontana, passata, vissuta nell’intensità di un rapporto? Gioia viva nel ricordo di un sorriso o di sorrisi ora coperti dal gelo (la neve) di una lontananza (corpi incoscienti) temporale, ma vivi per la gioia di un “puro amore” che ancora li evoca. La felicità della donna è nell’essersi riempita di un amore totalizzante che ha dato compiutezza alla propria esistenza. Una lusinga, tuttavia, dalla quale traspira in qualche modo la fragilità e la precarietà, forse l’inganno.



Gli occhi del mio uomo


E’ il non sentirsi adeguata all’altro, è lo stupore di comprendere di essere per l’altro una pienezza, che può svanire e svuotarsi. E’ il desiderio di dare, è la certezza di essere parte dell’anima altrui, l’assoluta consapevolezza del proprio dono d’amore. Questa è la felicità dell’amante, anche quando si accusa di essere una “ladra”. In realtà tale autoaccusa è soltanto la richiesta dell’anima di lui per restituirgli la felicità che le ha dato.
E’ la follia del dono dell’amore senza ricompensa.
Soltanto una donna lo poteva scrivere!



Tu


L’amore vive nella visione della storia del quotidiano, che, coperta di un velo, diviene lontana e magica, quasi mistificata. Incombe il senso del mistero di due corpi, che, sebbene in comunione, la “stanchezza” mira a separare, nella consapevolezza della distinzione (l’uso del plurale lo evidenzia perfettamente), generando la “paura” di comunicare la sensazione di una storia d’amore che diverrà abitudine. Da qui il grido a se stessa: “…è presto, troppo presto”, accompagnato dall’angosciosa ( è il senso che credo di dover dare al “forse”) constatazione che l’amore “ormai” ha vinto e che è, di conseguenza, troppo tardi per tornare indietro per vivere soltanto quell’attimo di felicità. Il “Fermati, attimo. Sei bello!” del Faust di Goethe qui è inficiato dalla mediocrità della storia che verrà dopo. E a nulla vale il rifiuto di un cuore amante di donna.
Il “già” del verso finale lo si può interpretare come un “iam” della lingua latina, cioè: “ormai”.


Vento

La donna vive nella gioia dell’amore attimi di felicità che tenta di comunicare a lui, per farlo partecipe del dono che lei ha ricevuto. Ma lo sente lontano, quasi indifferente. Non le resta allora che un’invocazione, quasi una preghiera, perché anche lui approfitti di questa gioia che offre il volo dell’amore, durante il quale neppure la possibilità di una caduta potrà essere di impedimento. Ma è un’invocazione triste, forse con la consapevolezza che lui non ha ali adeguate per seguirla nei suoi voli.


Fragile amore mio

L’amore non è un “alter”, un “altro” distinto e separato da lei, ma è quel sentimento che circola all’interno della sua anima, amato, desiderato, evocato, ma sempre in via di sparizione, che lascia come traccia un sogno svanito o un profumo dissolto (“rosa…appassire”). I due versi finali mi appaiono soltanto come una tenue speranza, se non la rassegnazione a un fallimento, che l’anima rifiuta.


Non dimenticarmi

Chi parla qui? Il poeta, che comunica il suo disagio di amare, oppure l’amore che, in prima persona, pretende la sua presenza pur tra le banalità del vivere e la resa dei sogni alla quotidianità della vita?


Per amare

L’amore detta qui i suoi precetti e le sue regole. Sa cosa vuole e quali sono le strade che conducono a lui, tra meraviglie e abissi, cadute e rinascite. Pur essendo geloso sa di essere fedele e, per questo, non ammette paure o viltà.
Se, invece, è il poeta a cantare si intuisce che nel suo volo c’è un richiamo inascoltato, il grido di un’anima felice che vuole comunicare la sua gioia ma non trova ascolto. Incolmabile distanza!



Crepe

Un sogno d’amore, come attraverso una lente d’ingrandimento, faceva diventare roccia un insignificante sasso. Ora non accadrà più: il sasso resta quello che era: una piccola pietra, racchiusa nella realtà della sua pochezza e banalità. L’uomo è fuggito dal sogno, ha infranto la lente ed appare nella debolezza del suo passo da infermo. L’amore di lei, però, non è svanito, è rimasto intatto nella consapevolezza della propria esistenza, vivo nella “cercata grandezza” del proprio dono, anche se rifiutato.


Nebbia

Il perenne circolo dell’esistenza è un girare intorno a se stesso senza riuscire a trovare l’approdo, in una nebbia che, tuttavia, fa ritrovare la propria identità nella coscienza del proprio limite di uomo. Solo così la vita non è più un labirinto dal quale fuggire, ma una felice consapevolezza del proprio essere. Forse la gioia del vivere.


Crisalide

I voli iniziali dell’insetto potrebbero essere avvicinati a quelli descritti dal poeta Giovanni Prati in “Incantesimo”. A torto. Nella poesia del Prati c’è il desiderio di confondersi con le “piccole cose” della natura in una sorta di fuga da una “realtà” insopportabile; qui, al contrario, c’è il desiderio di rientrare nel ventre materno, non per annullarsi, ma per godere, in piena coscienza, della gioia dell’essere oltre la materia del proprio corpo. Mi sembra di sentire la preghiera e il desiderio di Sant’Agostino del riposo in Dio dalle sue inquietudini. E’ vero che in questo componimento il nome di Dio manca, per lo meno a parole, ma il passo è breve, molto breve, dall’invocazione della Sue braccia, per smarrirsi in Lui.


Il Presagio

Fragilità degli amori quando non trovano il modo di unirsi e vivere in comunione. Pianeti di orbite diverse che soltanto se si incontrano riescono a riflettere lo splendore della propria essenza, altrimenti vivono il disagio di una incomunicabilità che li allontana lasciandoli in una cupa solitudine. Si osservano, si ammirano, ma vivono la tristezza di un impossibile dono. Mi sembra di vedere negli ultimi cinque versi il dramma di un’anima che non riesce a trovare requie per un’offerta d’amore respinta.

Sola

Veglia vigile della poetessa, tesa a contemplare il naufragio della propria anima nel gran mare dell’esistere, con la paura di perderla negli abissi.
Il verso finale, privo di interpunzione, costituisce un urlo disperato nell’angosciosa consapevolezza di una navigazione senza approdo. E’ lo smarrimento per un faro che non appare, e tuttavia si cerca.


La Fine

Breve saggio, in sei versi, sulla vita, sulla morte, sul prima, sul dopo e sulla “verità”, inconoscibile (“muta”), che attende l’uomo. Che cosa è la “Fine”?
Che dire?
Stupefatta e sospesa domanda, alla quale nessuno risponde, se non la speranza che la “ghigliottina divina” compia il taglio netto fra il “prima” e il “dopo” aprendo la strada alla scoperta, che ora, nel “prima” è soltanto un bruciante desiderio del “dopo”.
Questo è ancora un componimento nel quale è evidente una forte sensibilità religiosa. Laica? E che importanza ha?
Dio è uno e per tutti.



Ho perso l’amore

Un amore al quale soltanto il ricordo dà ancora vita, nell’immaginazione, perché la “Verità” appare, si fa strada dal groviglio delle supposizioni, e come una lama ferale, simile alla falce della classica iconografia della morte, toglie ogni illusione districando nodi che un cuore impazzito dal dolore intreccia nella sua indomita speranza e rivela l’impossibilità del viaggio all’indietro nel tempo alla ricerca di quell’amore che concedeva speranze e riempiva la vita.
E’ evidente lo smarrimento per un bene perduto per sempre, sul quale si era costruita la propria casa e si era scommesso il proprio destino. La delusione diviene più forte della sconfitta stessa.


Un’altra con te

Composizione “catulliana” , di grande nostalgia di un amore perduto del quale restano brucianti ricordi, marchiati col fuoco di una passione inestinguibile. Segni che ora la donna sente impressi sulla pelle della sua rivale. L’uomo, tuttavia, è un amante che si ripete senza forza e senza passione, mentre la donna ha dato, come Catullo, appunto, un senso all’amore, al loro stare insieme, un senso che lui ignora nella sua mediocrità. Questo però non dà consolazione, ma fa crescere il disagio dell’offerta incompresa e della banalità dell’uomo che si immaginava vivo ed invece è soltanto l’ evanescente ricordo di una proiezione della propria anima di donna innamorata.




Viaggio nel mio dolore

E’ dominante nella composizione, come a me pare, l’espressione “metastasi / dei miei pensieri…”, che dà la chiave di interpretazione di un dolore divenuto ossessione, che si vorrebbe cancellare. Il tema tuttavia non è il dolore in sé, assoluto, bensì una gioia svanita, un’illusione sulla quale si è fondata una vita di sogni e di gioie che la realtà, “le intemperie della vita”, ha annullato. La vita diviene allora un miscuglio indecifrabile di scorie, “fangosa poltiglia”, che si stenta a riconoscere, sulla quale non si può fondare più una certezza, ma soltanto una speranza, non si sa quanto ingannevole. Questa volta, però, l’amore cede il posto alla consapevolezza. L’amante delusa si munisce di solidi attrezzi: una forbice, per tagliare quei sentimenti che in passato l’hanno illusa; una pala, per seppellire le illusioni che l’amore le ha alimentato soffocandola. Il passato dovrà annullarsi in una tomba, che neppure il rimpianto dovrà ricordare. La disperazione dell’inganno d’amore la munirà infine di una torcia, per dare razionalità ai suoi sentimenti nel suo eventuale nuovo viaggio d’amore. Il “delitto” dell’amore con il corteo dei suoi sentimenti è, così, completato. Chi è stato l’artefice? Una donna illusa e delusa, oppure un amante che ha voluto giocare con i sentimenti altrui, trasformando la gioia in una voluttà di disintegrazione?


Che cosa resta del nostro amore?

Altra composizione tipicamente catulliana, dominata dalla nostalgia e dal rimpianto. Ma non è un amante perduto che qui si canta, quanto, al di là dell’intreccio dei corpi, il vuoto che la sua mancanza provoca nell’esistenza. Se l’amore è gioia di esistere, la sua privazione annulla ogni possibilità di vita, scoprendone la fragilità e l’insicurezza. Tutto quanto riempiva la vita, dava un senso a gesti, dava sincronia alle azioni rendendole comuni e uniche ora non è che il soffio di una voce che ripete lo stesso ritornello. Quasi uno sberleffo, o una nenia di riflessione sull’ inconsistenza delle proprie certezze fondate sulla lealtà di un amore promesso, magari durante una comunione di corpi. Potrebbe essere anche un canto di disperazione, come si evidenzia dalla struttura, ma a me sembra un canto di riflessione sull’inganno dell’amore.




Bugie

Amore come finzione, come costruzione quotidiana di un “altro” che non esiste, oscillante fra realtà e sogno. La realtà, però, ha procurato felicità col dono dell’amore offerto, ma anche ricevuto, sebbene di riflesso, come in uno specchio. Il sogno invece è più duro della realtà stessa, perché è inventare un ritorno che la ragione non è disposta a concedere. La mente, per questo, vaga smarrita nel futuro pretendendo di farlo diventare passato nell’angoscia del presente. Il cuore la segue senza comprendere, nel gelo dell’incapacità di vivere emozioni, come l’odio, che potrebbero dare un senso a tanto confuso vagare e, forse, condurre alla salvezza.


Mi manchi tanto

Ancora amore e sogno, ed esplosione di gioia per l’invenzione di un “altro” che non c’è. Qui è evidente la forte illusione di chi si crea da sola un personaggio, che appare lontano, assente, al quale fare dono dell’amore. E’ il bisogno di un cuore folle, capace anche di squarciare la notte nella ricerca di chi gli manca. E’ forse il grido, come sovente accade nella poesia di Giusy, di un’anima che anela all’assoluto, ma si perde, perché o non lo trova, o lo sente lontano, appena intravisto fra immaginate luci, canti e finestre sull’inconoscibile.


Celluloide

Un libro che registra una storia di dolore e afflizione si trasforma nella metafora di un paesaggio autunnale umido e quasi irreale, nell’inconsistenza di un’immagine “fragile”, prossima a svanire. E’ la proiezione di una vita che vorrebbe raccontarsi come su un nastro di celluloide, ma, invece di svolgersi per mostrarsi, si avvolge come un serpente che divora se stesso, in una circolazione nella quale si consuma senza redenzione, nell’intrico di fatue visioni, senza senso alcuno: rapide e fugaci immagini dei resti di un’anima sconfitta. Chi è l’ “oscuro regista” di una tale “grigia proiezione”? Il male, che, come in un beffardo gioco del destino, ha voluto segnalare la sua vittoria su un’anima già provata? Ci manca lo sghignazzo finale, rimbombante nella “sala da films” cui si è ridotto il poeta. Ma forse c’è, nella inutilità della domanda: “E mi chiedo quale…”.





Discontinuo

Rifiutare la propria storia è un gesto di disperazione che non calma il dolore, non seppellisce il passato ma annulla l’avvenire, divenuto un ramo che si seccherà, nella consapevolezza di essersi staccato dal tronco che si nutre attraverso le radici che succhiano linfa dal passato. E’ l’eterno gioco del voler rompere lo specchio nel quale si aggirano i propri fantasmi trascorsi, per poi correre subito a raccattare i cocci, forse nell’assurda impresa di incollare i pezzi di una storia che non c’è stata e si immaginava migliore.


Demoni

I “Demoni” sono i figli di ciò che si sarebbe voluto essere e di ciò che, invece, si è stato. Voler riscrivere una storia che non si è vissuta non porta alla rinascita, ma alla consapevolezza di una morte, senza la certezza del saper ricominciare senza rifare gli stessi errori. Lo dimostra quella folla di mani, di corpi che si vorrebbe rincontrare, quelle parole che si sarebbe voluto pronunciare, in una voluttà di disintegrazione di ciò che si è detto, che tuttavia si evoca per non ripeterlo più, come in una scena di un film non riuscita. E’ in una palude dove il poeta vive. Sa che lo sommergerà, e comprende anche che il suo agitarsi gli fa crescere la disperazione e gli toglie la speranza della vittoria. Tuttavia la sua volontà di cambiare il corso di una storia già vissuta gli concede inaspettatamente la forza di resistere e il grido di invocazione della morte non è soltanto la dichiarazione della propria impotenza, ma anche la speranza della redenzione ottenuta dal crogiuolo nel quale ha bruciato un passato che l’opprime. I demoni appaiono dunque sconfitti, anche se i loro morsi fanno ancora male.

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