lunedì 2 maggio 2011

RADICI


(palazzo degli uffici a San Valentino in Abruzzo Citeriore, 1920)


(l'antica locanda di Civago, appennino tosco emiliano, anno 1929)


Non so cosa darei per tornare bambina , per mettermi una mano sulla bocca mentre dicevo ai miei: “Me l’hai già raccontato”, oppure “Le solite storie!”.
Me ne pento, soprattutto pensando a chi non c’è più.
Come mio padre.
Quante volte l’ho interrotto mentre mi raccontava che aveva vissuto a Teramo e a Macerata, nel pellegrinare della sua famiglia per tutta l’Italia, al seguito del padre forestale. O quando mi parlava di quando andava da ragazzo, durante le vacanze estive, al pascolo nelle sue montagne dell’appennino reggiano, assieme ad un cugino che faceva il pastore, come Peter, l’amico di Heidi.
Forse i bambini vivono talmente tanto nel presente che il passato li infastidisce, come qualcosa che li risucchia indietro nella loro corsa verso il futuro.

La nonna poi con la sua parlata abruzzese a volte mi infastidiva persino, anche se non gliel’ho mai fatto capire.
“Qui al Nord” ( sono nata e vivo a Piacenza) negli anni 70/80, per chi era nato qui, insospettiva avere qualche nonno che aveva una parlata un po’ meridionale e ricordo che ero imbarazzata quando qualche compagno di scuola mi diceva “Ma i tuoi nonni sono meridionali, ma come parlano?”
Nessuna cattiveria, solo problemi di integrazione che adesso viviamo in chiave multietnica e che una volta si vivevano anche tra italiani.
Mia nonna infatti mi ha sempre detto con orgoglio “Non siamo meridionali, ma centrali. L’Abruzzo è nell’Italia centrale e Pescara è a nord di Roma”.

Del mio cognome poi non ne parliamo. Anche se è quello di cui so di più… Mio prozio Alberto appassionato di araldica inondava tutti i parenti, sparsi per l’Italia, di notizie risalenti persino alle crociate. Ma non ho mai ricostruito bene cosa successe ai miei bisnonni morti nei bombardamenti di Monte Cassino… Purtoppo, in questo caso, chi poteva me ne ha parlato poco. E abbiamo avuto pochissime occasioni di confrontarci.

In ogni caso tutti questi racconti erano pieni di eventi tristi: bombe, rifugi, morti, fughe.
Argomenti che mi sembravano irreali, troppo lontani dalla mia eternità di bambina.

E ora? Ora che mi mancano tutti testimoni tranne mia madre, preziosa custode della memoria, mi dibatto alla ricerca di informazioni, riferimenti, storie alla ricerca di non so nemmeno io che cosa.
Mi è quasi venuta una febbre. Un desiderio atroce di costruzione di identità.

Che poi a far partecipi gli altri delle mie ricerche, a volte mi sembra di essere come quelli che tornano a casa dalle vacanze con i loro filmini.
Che tutti fingono di apprezzare ( ah, che carina la piccola Carolina con i braccioli in piscina) e dentro di sé li maledicono e non vedono l’ora che finisca lo strazio.

Come facevo io da bambina quando tentavano di raccontarmi le antiche storie.

E’ quando non vediamo più il futuro che ci rifugiamo nel passato?
O quando non siamo più in grado di evolvere?
Come i pittori manieristi che imitavano Michelangelo perché non avevano più nulla da dire?

O è soltanto perché, come tanti della mia generazione, vivo con problematicità il mio presente sociale, politico, lavorativo, affettivo.
E mi sento, in fondo, sradicata.

E la mia città …dove sono nata” E dove abito, in cui però mi sento quasi sempre solo un’ospite. Un’ospite graditissima, ultimamente. Vezzeggiata. Dove però non sento la voce del sangue e dove mi sembra di essere appoggiata come un mazzo di fiori recisi.

Che aspettano un terreno dove attecchire prima di appassire.

Questa immagine di me mi piace e quindi mi fermo qui ;)

Per non farmi maledire, come quelli dei filmini.

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