sabato 28 dicembre 2013

Diario Americano

NYC 15 dicembre - 24 dicembre 2013

Diario Americano
Appunti di viaggio di GCP a NYC



New York è una città sorprendente.
Ci vai credendo di sapere tutto di “lei” dai set cinematografici e letterari, dalle foto, dai racconti degli altri.
Ma poi quando arrivi, in qualche modo diventa solo tua, perché ci trovi quello che sei tu, ne cogli gli aspetti che più sono in sintonia con il tuo essere profondo.
Perché New York non è una città: è tutte le città. Racchiude in sé Parigi, Londra, Roma, Shangai, Gerusalemme, Tokyo, Città del Messico, Dublino… pare che ogni angolo sia una “summa” di ognuna.
All’inizio ti abbaglia con le sue luci ineguagliabili e con la rincorsa nei confronti del cielo che ogni grande civiltà ha affrontato nei periodi di maggior splendore, come una sfida babelica a Dio. Lo skyline dei grattacieli è davvero qualcosa che tuo malgrado non può non affascinarti. Rimani lì, a terra e scivoli con il tuo sguardo su queste architetture ardite fino a perderti tra le nuvole. Oppure ne scali uno con un ascensore tanto veloce da sembrare una navetta spaziale, tanto che non riesci a contare i piani… trentacinque, quarantaquattro, già settantacinque e lo spettacolo della città si spalanca davanti ai tuoi occhi, come se si aprisse un sipario sul teatro più grande del mondo. E’ uno spettacolo creato dall’uomo, un momento di autocompiacimento superbo e anche orgoglioso.  Niente montagne o colline, da lontano solo l’Oceano, dal colore azzurro chiaro, ingentilito dagli stretti passaggi tra le isole e l’Hudson pacifico e silenzioso che pare un piccolo braccio di mare. L’Uomo e il suo passaggio sulla terra, la sua complessità, fatta di razze diverse, credi diversi, interessi diversi si ritrovano intrecciati in un’architettura non solo edilizia e urbanistica, ma culturale.

THE PEOPLE
La gente di New York è il capolavoro della città.
Ogni giorno dal nostro appartamentino di Harlem era spettacolare prendere la metropolitana e guardarli, i Newyorkesi, soprattutto nei giorni feriali. Silenziosi, composti eppure così chiassosi nella loro multiformità. Accanto al nero con il cappellino e il tatuaggio da rapper, la ragazza wasp con il berretto, i capelli lunghissimi e i sandali senza calze anche d’inverno, un rabbino con barba e papalina ebraica con il figlio piccolo, l’ispanica con gli occhi un po’ sofferenti dopo una giornata di lavoro, lo yankee di mezza età con la giacca e l’aria di chi non sopporta di perdere tempo neanche in metro, il tizio con lo sguardo un po’ folle da taxi driver che ti guarda male se lo urti perché sta leggendo un giornale di gossip sulle celebrità.
E vederli lavorare.
Qualunque cosa facciano, dalla più prestigiosa alla più umile, la fanno con grande rigore. Lo spazzino per strada sembra che sia un agente speciale del governo, schiena dritta e sguardo fiero.  C’è un orgoglio per il lavoro che da noi sembra essersi perso. Forse perché è una società in cui basta poco per precipitare in basso, perché se non dimostri di saper fare il tuo lavoro, qualunque lavoro, sei buttato fuori.
Per questo dietro questa grande fierezza, se scavi dentro agli occhi, trovi, soprattutto in quelli belli e lucenti delle persone di colore – che purtroppo si occupano ancora loro di tutte le attività a livello meno alto della cosiddetta scala sociale – cogli un non so che di paura, un retrogusto che forse ho solo proiettato nei loro sguardi, ma che ho percepito.


WHERE THE STREET HAVE NO NAME
Troppo facile amare New York per la Manhattan chic, percorrendo la Quinta Strada, la strada più elegante e spaziosa che abbia mai visto in vita mia. Quella di Tiffany’s e di Audrey Hepurn,  dei grandi e monumentali negozi ( ma è limitativo definirli tali) dei grandi stilisti italiani – c’è da farsi un bagno di orgoglio made in Italy – e francesi, dei grandi gioiellieri, dei diamanti per sempre e no, quella dei grandi alberghi che hanno come nome un numero, con le pensiline lunghissime e le cadillac ferme ad aspettare i bagagli dei milionari.
Troppo facile davvero.
Per questo meglio tornare in metro, o prendere un autobus, o meglio ancora camminare e chiedere alle persone strade e direzioni.
Neanche un bambino si perderebbe a New York. E’ come una città dell’antica Roma, e questo carattere “imperiale” si nota dai suoi moderni cardi e decumani, le enormi avenue e le street, contrassegnate dai numeri, e le distanze si mi misurano in blocchi, che sono i quadrati di case racchiuse tra una strada e l’altra.
Mentre ero lì pensavo agli U2  e alla canzone “Where the streets have no name”, con un po’ di disapprovazione per il pragmatismo americano,  ma in realtà il mio gusto europeo ha trovato sollievo nello scoprire che la maggior parte delle strade ha un “sottotitolo”. La nostra di Harlem, dove c’era la nostra fermata metro, la 125sima era sottotitolata “Via Martin Luther King”  e questo mi piaceva molto.



                                     



LA MIA NEW YORK: VILLAGE AND SOHO

Ma la “mia” New York credo di averla trovata al Greenwich Village e a Soho, tra le strade strette e le casette marroni con le scalinate sulla strada. Ci avevano consigliato di perderci in quella parte di città, di buttare via la cartina, e così abbiamo fatto.
Così facendo siamo capitati in uno stranissimo circolo degli scacchi aperto a tutti. Bastava aprire una porta, sedersi ed entrare a giocare o a guardare gli altri. Sparpagliate un po’ dappertutto scacchiere di ogni tipo, non ho capito se in vendita o in esposizione. Mai viste tante, e mai visti tanti antagonisti diversi. Dalla corte di Camelot a quella dei moschettieri di Francia, dai cowboy e pellerossa, agli antichi egizi, dai protagonisti di guerre stellari a quelli della guerra di indipendenza. Sui tavoli una ragazza giocava con un anziano, mentre un ragazzo con le treccine, forse un giamaicano, le dava consigli che il vecchio non gradiva. Nessuno ci ha detto di andar via o di comprare qualcosa.






A Soho siamo entrati nel caffè letterario più bello che abbia mai visto, quello dei miei sogni, quello che speravo di aprire a Piacenza. Da una porticina che non diresti, ti si  apre la vista su un locale a due piani, tutto in legno antico, pieno di gente. Alle pareti del piano di sopra scaffali pieni di libri di tutti i generi. Dai classici ai libri di yoga. Al piano di sotto tavoli e tavolini in legno dove la gente sorseggiava the o caffè o capuccino. Niente birra o altro come da noi. E sembrava leggessero davvero!  A collegare i due piani varie scale di legno, molto suggestive. A piano terra il banco dei gestori, discreti, a stento si differenziavano dagli avventori,  che parlavano a voce bassa, quasi suggestionati dal luogo. Si respirava un’aria  serena e mi è piaciuto molto.
Ma mi è piaciuta anche una chiassosissima enorme boutique in cui un sedicente artista pittore di magliette di arte post moderna cercava di convincerci a comprare esemplari carissimi di una collezione che a suo dire avrebbe portato presto in Europa. Anche questa a più piani e piena di cappellini antichi, guanti, gioielli strani. E un negozio di dischi di vinile che sembrava tratto da “Alta fedeltà”.
Sembrava di essere contemporaneamente nel Quartiere Latino e a Trastevere, ma era anche qualcosa di diverso. Quel non so che mi ha fatto desiderare per un attimo di vivere per sempre lì, in quelle strade dove negli anni settanta gli artisti beat cercavano di dire qualcosa, dove vagavano Jack Keruac e il giovane Bob Dylan, solo per citarne due.  Suggestioni turistiche? Sicuramente.
La vita è la stessa ovunque: lavoro, routine, incombenze familiari, affitti, bollette, salute e malattia, vicini simpatici, antipatici o solamente indifferenti. Però è bello un po’ sognare.


                                      

IMAGINE...

Non è un caso che John Lennon abbia scritto Imagine a New York, credo. Penso che un sensibilità come la sua abbia percepito quel senso di unità nella diversità che ti lascia questa città. Penso anche che solo in una città così si riesca a concepire un’utopia simile, o a pensare di “to have a dream”.
Mi ha emozionato passeggiare sul mosaico con la scritta Imagine che i newyorkesi hanno dedicato a John Lennon in Central Park, in una parte del parco che si chiama “Strawberry Fields” come la celebre canzone dei Beatles. Mentre eravamo lì un’artista di strada canzava la canzone strimpellando a bassa voce con la chitarra, mentre noi turisti ci facevamo fotografare. Qualcuno aveva composto un cuore di sassi colorati sulla scritta. Lennon è morto a pochi passi da lì, davanti all’ingresso di Dakota Palace, nel 1980, ma la sua memoria è ancora viva e ben custodita da New York, la sua città adottiva.



LA BANDIERA
Passeggiando così a volte senza meta precisa mi sono innamorata davvero di questo luogo. Commuovendomi davanti alla Statua della Libertà, cercando nel registro di Ellis Island le tracce di uomini partiti dalla mia terra di sangue, l’Abruzzo, in cerca di un futuro migliore, tra difficoltà inimmaginabili, nel loro viaggio verso l’ignoto.  Percorrendo il Ponte di Brooklyn al tramonto, tra la folla di turisti  che scattava foto in continuazione e guardando il fiume di macchine che come una scia rosso sangue percorreva la città.
E’ inevitabile essere un po’ retorici qui, in questo tripudio di bandiere americane che sventolano ovunque, dal negozio di abbigliamento alle banche, dagli istituti religiosi o similari ( c’è davvero e c’è ancora l’esercito della salvezza). Forse c’è un po’ di ingenuità in questo orgoglio, e forse c’è un orgoglio che è un po’ riferito a se stessi. E’ come se ognuno volesse dire: io ce l’ho fatta, sono stato bravo, sono dovuto venire qui!
Forse è anche un po’ un velato rimprovero alla propria terra d’origine verso la quale  però tutti hanno un grande attaccamento, una nostalgia dolce e malinconica.



LITTLE ITALY
A Little Italy, che sta sparendo, inghiottita da Chinatown e spopolata da italiani sempre più rampanti e integrati nella New York più di successo (il nuovo sindaco è oriundo campano) che vivono in zone più belle e residenziali o si sono spostati più verso il New Jersey e Staten Island oltre che a Brooklyn, abbiamo incontrato Giovanni, che è in America dal 1964 e fa il cameriere in uno dei ristoranti della strada dai nomi più nazional popolari (La bella Vita, Napoli, Palermo, Amici miei).
Ha raccontato che lui è uno degli ultimi a essere rimasto lì, che viene da Bari e ne è orgogliosissimo. Sa tutte le canzoni italiane degli anni sessanta e ci ha cantato il Padrino, il brano con cui forse attira clienti per strada, ironizzando sulla Mafia, parola che purtroppo campeggia nelle magliette souvenir per turisti della zona, depauperata dall’accezione negativa ma utilizzata come nota di colore.
Ha una figlia che abita nel New Jersey e ha una villa con piscina. E’ grato all’America perché gli ha dato lavoro e possibilità per i suoi figli.
Ecco, forse l’esposizione della bandiera, anche da parte degli immigrati più recenti, è una forma di riconoscenza più che di appartenenza. Almeno credo.



A SPASSO IN CENTRO  - NYC CRISTHMAS
Ho avuto la fortuna di vedere New York a Natale, ancora più splendente e da cartolina, con l’abete del Rockefeller Center e i pattinatori, Times Square pullulante di turisti di corsa  con pacchetti e invasa di pupazzi Disney vestiti da Babbo Natale, Brodway e tutti gli spettacoli in scena da anni. Siamo andati a vedere lo spettacolo di Natale al Radio City Music Hall con le famose Rokettes, cinquanta? ballerine perfettamente sincronizzate tra di loro, che sembrano uscite dai più fastosi musical di Hollywood degli anni d’oro, le immagini tridimensionali, gli sfarzi, il palco con gli effetti speciali, Babbo Natale, le renne, i dromedari in uno splendido teatro lussuoso e monumentale con un enorme lampadario dalle mille luci, dove persino il bagno per signore è una sorta di museo.
NYC è la città dei musei  E tutti i musei incredibili di New York, dal Moma che mi ha regalato la mostra di Magritte, il mio pittore preferito, oltre a una giornata intera passata a girarlo su e giù tra opere d’arte comprensibili e altre completamente assurde e sconcertanti, al Metropolitan, il cui solo reparto egizio rivaleggia con l’intero museo egizio di Torino, in cui, per dire, solo di Monet ce ne sono trentasette, al museo di storia naturale tra i dinosauri e la ricostruzione della storia del mondo e del big bang raccontata nel planetarium dalla voce di Liam Neeson. Niente male vero?




TAXI DRIVERS
I taxi appaiono come la popolazione più numerosa di NY: migliaia, gialli, febbrili, pullulano le strade come api in un alveare. Che non li puoi chiamare per telefono, ma devi fermarli per strada con una mano. Che costano poco rispetto a quelli europei, meno della metà, ma  che se non dai una mancia al taxista, non si schiodano dalla tua vista finché non paghi la parte “tip”.
Gli autisti, come in tutti i mestieri americani, sono di un paio di etnie solamente, salvo eccezioni: indo-asiatici ( pakistani o del Bangladesh) per la maggioranza o ispanici e se stimolati sono abbastanza ciarlieri.
Nella zona di Harlem non ne giravano tantissimi, perché la maggioranza delle persone viaggia in bus e in metro e non ci sono tanti alberghi come nel resto di Manhattan, tuttavia il giorno della nostra partenza, complice la pioggia, ne abbiamo trovato subito uno sotto casa che ci ha portato dritti al JFK per non tanti dollari. Magica e amica New York.


LA MANCIA!
Le mance sono un altro aspetto che mi ha colpito degli USA.  Quando vai in un locale è pressoché obbligatorio lasciarla: non farlo è un atto di grave scortesia, a tal punto che  in alcuni posti – complici forse i clienti europei non abituati a questa usanza e quindi “maleducati” -  sono incuse nel conto ufficialmente, come spesa fisso tipo il nostro coperto. In altri sono libere.
Dopo averci riflettuto ho pensato che forse anche questo fa parte del sistema meritocratico americano, dove l’individuo può spiccare dalla massa se si dà da fare ed è capace. In effetti quante volte capita di pensare in un ufficio o in un negozio: “ Questo commesso è più bravo di quest’altro, ma prenderanno la stessa paga…”. L’Italia purtroppo attraversa un periodo storico in cui il merito pare punito anziché premiato. E’ vero che il sistema americano è “Darwiniano” e non tollera cadute di forma o periodi no: devi sempre essere al massimo ed “esistere” in quanto lavori o produci. L’otium latino è ben distante da loro.  Otium che ha anche i suoi lati positivi e contemplativi che io, che ho dentro sangue del centritalia, non rinnego affatto, anzi mi ci ritrovo anche. Tuttavia il concetto di premio per chi fatica e si dà da fare è qualcosa che ammiro molto.


DYKERS HEIGHTS E LE LUCI DI NATALE
Prima di lasciare questa incredibile città e finire il viaggio come l’avevamo cominciato: ovvero uscendo dalla metropolitana a Times Square circondati dai grattacieli con le insegne luminose e dalla folla,  abbiamo deciso di puntare ad una meta natalizia, poco conosciuta dai visitatori europei di New York. Dykers Heights.
E’ una parte di Brooklyn dove non passano taxi, metro o autobus e bisogna essere disposti a camminare tanto. La meta però ne vale la pena ed è indescrivibile. Decine e decine di villette, forse più di cento, in cui gli abitanti si sbizzarriscono in addobbi natalizi, quasi a sfidarsi. Ci sono milioni di watt a contendersi il primato di casa più natalizia. I giardini sono occupati da babbi natale giganteschi, renne semoventi, campane, angeli, soldati di piombo a grandezza naturale. Sembra di essere a Disneyland. Ogni finestra ha un addobbo interno ed esterno, a volte intere scene,  le scale, i tetti. E’ tutto uno sfavillio incredibile di luci. Gli americani conoscono bene questo quartiere che impazzisce una volta all’anno, difatti nel “centro” di questo strano luogo abbiamo trovato una folla di gente, soprattutto bambini, con macchine fotografiche e addirittura pulmini che arrivavano da altre città e macchine che andavano a passo d’uomo. Uno spettacolo tutto statunitense in cui pur mancando il senso del sacro, rappresentato solo da qualche presepe immerso nello sfavillio di luci e decorazioni, si avverte un profondo senso di gioia, di festa e condivisione.  Le parole non rendono questo spettacolo e nemmeno le immagini. E’ il Natale di Paperino, dei cartoni, dei bambini. E’ America anche questa.


MONEY MONEY AMEN
Le chiese americane sono immerse nei grattacieli e nel tessuto urbano. Poche, ovviamente, hanno la struttura che conosciamo bene e che è quella cattolica, soprattutto.
San Patrizio è una bella chiesa che ricorda le nostre architetture neogotiche, è stranissimo che è quasi davanti a Tiffany’s. La devozione oggi è prevalentemente ispanica e si rivela nelle icone di Nostra Signora di Guadalupe o di altre zone del Centro America, anche se in San Patrizio pare che ogni santo abbia un altare e uno spazio offerte. In ogni luogo infatti in USA c’è uno spazio per sponsorizzare il risanamento di un edificio, di una fondazione, di un museo. Per loro il denaro non è figlio del diavolo, come nella nostra concezione cattolica. Per loro il denaro è qualcosa di sacro perché nella loro mentalità serve a fare cose buone, è utile e indispensabile in una società in cui non ci sono aiuti statali e ognuno se la deve cavare con le proprie forze. Per questo in ogni luogo ci sono statue e lapidi che ricordano i vari benefattori.
Anch’io che non ho un rapporto simile con il denaro all’inizio mi sono sentita un po’ a disagio, quasi in disaccordo con questa continua richiesta di sponsorizzazione, ma poi ho capito quello che ci sta dietro.
Non so quale sia la società migliore, non vi è mai un giudizio comparando le civiltà, solo curiosità per le diversità. E’ vero che negli USA non vi è assistenza medica gratuita. E’ vero che bisogna occuparsene privatamente. E quanti annunci in metropolitana sono dedicati a questo tipo di assicurazione. Lo stesso dicasi per l’istruzione, perché il sistema pubblico è quello di emergenza per chi è in gravi difficoltà ed è, dicono, di qualità bassa. Sono stata lì troppo poco tempo per farmi un’idea.



DANGER!
Un’altra immagine in chiaroscuro dell’America e di New York sono i controlli. Non so quante volte ci siamo dovuti togliere scarpe, cinture, orologi e piumini per entrare in tutti i luoghi più famosi, facendo file interminabili, sotto gli occhi davvero severi dei sorveglianti.
La paura dell’11 settembre e ancora viva e si percepisce in queste circostanze. Siamo passati davanti alle rovine di quello che rimane del World Trade Center, a Ground Zero, abbiamo visto i filmati che ritraevano i racconti dei familiari di chi è scomparso in quella circostanza.
La ferita c’è e brucia ancora. Ad Harlem abitavamo vicino alla stazione dei pompieri e ogni tanto vedevamo uscire la loro macchina, così caratteristica. Pensavamo a quei giorni, allo sgomento che deve aver preso questa città, al sentimento di paura che forse da allora non li abbandona più.

FOOD??!
Ma come mangiano gli americani? Sembra che per loro il cibo non sia importante, che sia forse una perdita di tempo, sicuramente un fatto secondario. Per questo un italiano a New York non può non mettersi le mani nei capelli e chiedersi come facciano. Il fast food è quello dei film ed è anche buono (hotdog con senape e ketchup, cheeseburger e infinite ali di pollo con salsine piccantI) ma certo non è il massimo per la salute. Qualche zuppa è salvabile, la carne di manzo sicuramente ottima ma ne abbiamo mangiata poca.
Ci si salva un po’ mangiando nei ristorantini etnici, ma anche questi abbondano in cibi piccanti. Curiosando un po’ nell’appartamento del nostro ospite, Philip, giovane avvocato Newyorkese, abbiamo intuito che alcuni cercano di mangiare un po’ più sano comprando… pasta, olio, aceto e vino e cucinandoseli a casa, quando capita. Anche noi abbiamo cercato di rimediare ai pranzi veloci del mattino con qualche cenetta preparata andando al supermercato vicino. Anche se è difficile trovare un’insalata già lavata senza cipolla e spezie, per esempio. Bisogna essere pratici del luogo e l’ultimo giorno ce la siamo cavata abbastanza bene, anche se abbiamo salutato New York con uno splendido piatto di spaghetti che c’eravamo portati da casa. Della serie “Spaghetto mi hai provocato e mò ti magno”, proprio da tipici Italiani che non sanno fare a meno della loro pasta. Ehhh, è proprio così. Confesso.
                                        


IN BIBLIOTECA
Un ultimo pensiero al luogo parallelo americano del mio posto di lavoro: la Biblioteca. La Public Library, la più grande Biblioteca del mondo. Veramente monumentale con preziosi affreschi sui soffitti, scale di marmo, stanze degne di un palazzo ducale. Per me un paradiso. Ma anche tanto simile alla mia, con gli angoli reference, se pur giganteschi, gli stessi silenzi, gli stessi sguardi di disapprovazione quando cammini con scarpe rumorose. La caratteristica più singolare sono le lampade, a fungo, una per ogni visitatore. Me le ricordo nel film Colazione da Tiffany’s in cui una celebre scena è ambientata proprio lì. Erano proprio vere!
Ho lasciato uno dei miei libri alla Public Library in dono e mi hanno rilasciato una ricevuta. Ci tenevo tantissimo. Mentre aspettavo ho dato uno sguardo all’elenco degli autori e ne ho trovati tanti anche piacentini. Mi sono sentita un po’ a casa. Penso che le biblioteche siano tra i luoghi più belli al mondo, ma sono di parte, si sa…



E rieccoci a Piacenza… con il ricordo di un sogno che si è avverato, un mare di foto da scaricare e di monetine da un quarto di dollaro da decidere se tenere o cambiare e gli occhi ancora là...


E’ stato bellissimo. Ma non ci sarei andata senza quella persona meravigliosa che ha condiviso tutto questo con me, che condivide tutto, con me.
I LOVE YOU.

E ora... ciao a tutti! Si riparte in Italy! Bye!