giovedì 9 luglio 2020

Il cappello di Sant'Antonino


Le bancarelle, da bambina, le intravedevo dalle finestrelle bucherellate del mio cappello di paglia. Perché il giorno di Sant'Antonino dovevo assolutamente indossare quel cappello. Sapevo che la fiera era un avvenimento importantissimo, e, come nella canzone di De Gregori, "cominciavo ad aspettarlo quattro mesi prima". Per me era il simbolo dell'estate. Un'estate che passavo prevalentemente a Piacenza.
Il giorno 4 luglio era il mio Indipendence Day, la festa per eccellenza. Già al mattino, come i bambini che aspettano Santa Lucia, ero tutta in fermento, e dalla finestra di casa spiavo le tele tirate delle bancarelle e un vociare brioso, in crescendo fin dalle prima ore del mattino. Era a quel punto che arrivava la nonna. Mia madre rassegnata si preparava alla sua giornata campale con madre e bambina al seguito, sapendo di dover timbrare il cartellino della fiera almeno tre volte: mattino, pomeriggio e sera. Quindi la Nina, la Pinta e la Santa Maria salpavano da Piazzale Genova.
Era cominciato tutto nell'estate che anticipava il mio primo giorno di scuola: sarei diventata grande. E le persone grandi, come la nonna, portavano il cappello. Così, in quella fiera, nei ricordi colorati da polaroid, la nonna in persona mi aveva chiesto di scegliere il cappello nella bancarella più vicina a casa. La nonna era una grande esperta, era nata per un soffio nel milleottocento, il che mi sembrava una patente di nobiltà, di per sé. "Ho sei anni, è ora di avere un cappello come la nonna, ma non un cappello qualunque, un cappello preso in Fiera!". Così davanti a uno specchietto poco più grande di quelli da borsetta, che mi aveva passato l'ambulante, avevo provato tutti i cappellini bianchi a tesa corta, da bambine. Ma fin da neonata me li avevano messi in spiaggia: era un affronto! E poi in fiera c'erano tutte le cose più strane, quelle che non trovavi nei negozi normali: esotiche, profumate, preziose. Accontentarmi di un cappello qualunque? Giammai! Finalmente lo trovai, un po' più largo della mia testa, ma con un foulard ci stavo dentro. Di paglia lucentissima, con un fiocco rosso, e soprattutto la tesa enorme, spropositata: il mio viso scompariva dentro quella aureola gigantesca, facevo un'ombra enorme. Mi piacqui moltissimo. Mia madre, un po' perplessa, pagò l'ambulante che si congratulava esageratamente per la scelta, ma me lo lasciò mettere subito. La nonna, da intenditrice ottocentesca, approvò. Finalmente qualcuno in famiglia aveva ereditato la sua mania per i cappelli. Così tutti gli anni lo mettevo, solo il giorno di Sant'Antonino. La fiera dei miei sette anni fui particolarmente notata. Principalmente perché non c'era il sole, il che rendeva bizzarra la mia scelta del cappello. All'altezza della fontanina del Facsal, mio cugino e il suo amico Nando, in bicicletta, mi giravano intorno prendendomi in giro, approfittando di un varco tra la folla. Ma io ero troppo presa dal mio ruolo di donna con il cappello, come quello della riproduzione di Monet che avevamo in casa. Gli unici acquisti del corteo matriarcale della fiera, mia nonna, mia madre ed io, erano allora pochissimi, la recessione degli anni settanta era dura. Unica eccezione le statuine che prevedevano il meteo, che mi piacevano da matti. Erano di varie forme e soggetti, perlopiù imitazioni di statue famose, incrostate di una strana polvere metallica luccicante. Se diventava azzurra voleva dire che ci sarebbe stato bel tempo. Se diventava rosa avrebbe piovuto. Una volta a casa, in poche settimane, la polvere si staccava e la funzione meteorologica terminava miseramente. Un altro acquisto abituale era il pacchetto sorpresa; di solito costava poche centinaia di lire, al massimo cinquecento. Si sceglieva come un biscotto della fortuna, e poi si scartava o al momento o a casa. Erano perlopiù braccialetti di perline. Il venditore era sempre lo stesso indiano dalla pelle scura, e in un'epoca non multirazziale, la cosa mi stupiva e nel contempo mi piaceva molto. Mi ricordava i romanzi esotici per ragazzi, tipo quelli di Kipling. Pensavo che fosse capace anche di incantare i serpenti, maneggiava con strane ampolle di incenso, e aveva una gentilezza dolce ma misteriosa, come se avesse una vita magica da non raccontare. La nonna più prosaicamente si comprava tre mutande al prezzo di una. Meno male che io rimediavo a questa sua caduta di stile con il cappello. Ogni tanto urtavo contro qualcuno, per il volume esagerato del mio adorato copricapo. Una volta urtai persino contro l'Augusta, un personaggio eccentrico di Piacenza con le gote sempre rosse, che mi mandò a quel paese in piacentino. Ma subito dopo mi entrava nella testa, nonostante il cappello, il brusio della fiera e il pigolio del banco più bello per i bambini. I pulcini, soffici e teneri, sporgevano dalle scatoline di cartone, come un quadro dolce che ben si amalgamava con l'alba della mia vita. Al ritorno avevo tutta la testa sudata, ma mi ero divertita. Finì persino su Telelibertà. Seguivo il reportage finale per vedere se mi ero persa qualcosa, anche se, dai venditori di improbabili accessori per la cucina alla frutta secca del Sud, non mi sfuggiva nulla. Invece vidi inquadrato, e per un bel pezzo, il mio cappello, che si faceva largo tra la folla. Poi mi inquadrarono anche di fronte, sotto quell'ombrellone portatile. Fu la mia prima apparizione televisiva, e anche quella di cui fui più felice.