I MIEI RACCONTI

Oggi, per chi desidera, il mio racconto preferito, tra quelli che ho scritto.
Scriverlo per me è stato l'inizio di tutto. E' quello che ancora oggi mi ha dato più soddisfazioni e che qualche intrepida insegnante piacentina legge ogni tanto nelle scuole medie, parlando del mito di Odisseo ( grazie Laura Tacchinardi e Silvia Dallavalle).
Si intitola il Divoratore di Libri ed è ambientato nel mio luogo di lavoro, la Biblioteca Passerini-Landi di Piacenza.

IL DIVORATORE DI LIBRI



Tutte le mattine, davanti alla Biblioteca “Passerini-Landi” di Piacenza, un uomo dai movimenti nervosi aspettava con impazienza che si aprisse il portone.
 Era sempre il primo ad entrare.
La sua figura magra e allampanata era diventata ormai familiare ai bibliotecari, così come la barba arruffata e gli occhi scuri ed enigmatici, che sembravano sempre rivolti ad oggetti lontani dal momento e dal luogo presente.
Non prendeva mai libri a prestito e non chiedeva mai indicazioni a nessuno.
Si limitava ad aggirarsi per gli scaffali, a scegliere un libro e a sedersi ad un tavolo a leggerlo. Per ore.
Anche i frequentatori abituali della Biblioteca avevano imparato a conoscerlo.
Poteva avere cinquant’ anni, ma anche meno. O anche di più.
Non aveva rughe, ma lo sguardo cupo era quello di un uomo che aveva vissuto e visto molto.
Quando si metteva seduto si dedicava ad una sorta di liturgia, come un sacerdote che celebra una messa.
Toglieva dalla custodia gli occhiali da vista, tirava fuori da una tasca un fazzoletto immacolato e puliva le lenti per alcuni minuti, controllandone ogni tanto la trasparenza.
 Riponeva la custodia e avvicinava la sedia al tavolo.
Prendeva in mano il libro e ne osservava prima il dorso, poi la copertina, poi con la mano ne scorreva la superficie.
Finalmente inforcava gli occhiali e apriva con cautela il libro, senza spalancarlo, cominciando dalla prima pagina.
A questo punto si estraniava completamente dal mondo, mentre i suoi occhi percorrevano le righe a grande velocità e le mani nervose giravano vorticosamente le pagine.
 Né la gioventù colorata e un po’ chiassosa che popolava i corridoi della Biblioteca, né il via vai  della folla dei consultatori dei giornali lo distoglieva dal suo studio.
Se alzava gli occhi era solo per rivolgerli verso l’alto come se volesse fissare in mente qualche concetto particolarmente complesso.
All’ora di pranzo si alzava e lasciava il libro sul tavolo e dopo una mezz’oretta tornava al suo posto.
Riapriva il testo e si immergeva di nuovo nella lettura, per poi dileguarsi dieci minuti prima della chiusura.
Erano passati diversi mesi da quando il misterioso utente aveva cominciato a frequentare la Biblioteca e tutti i giorni, con il caldo e il freddo, il sole e la pioggia, la neve e la nebbia, le bibliotecarie lo vedevano seduto sempre nella stessa postazione, in fondo al corridoio.
Leggeva un intero libro al giorno, e tutto lo scibile umano sembrava passare attraverso le sue mani e i suoi occhi: Nietzsche, Ovidio, Joyce, Borges, ma anche Talete, libretti di opera, studi sulla pittura di Bruegel, trattati di botanica e di economia.
 Era impossibile risalire alla sua professione dai libri che lasciava sul tavolo.
Nessuno aveva mai sentito la sua voce, tranne una volta in cui aveva pronunciato la parola «Scusi» con una voce insolitamente giovane e profonda che aveva turbato una giovane addetta di biblioteca, urtata inavvertitamente dall’uomo.
Per una settimana aveva letto consecutivamente testi omerici. In italiano e in greco.
 L’Odissea, tradotta da Pindemonte, rimase sul suo tavolo due giorni consecutivi, accanto alla versione originale.
 Sembrava che l’uomo ne controllasse addirittura la traduzione.
 Alla giovane bibliotecaria venne in mente che lo strano tipo assomigliava un po’ a Bekim  Femiu, il protagonista dell’Odissea televisiva, così lei e le sue colleghe, non conoscendo il suo nome, cominciarono a chiamarlo Odisseo.
*§*§*§*
Odisseo era perfettamente conscio degli sguardi curiosi delle bibliotecarie e dei suoi vicini di tavolo, ma  non gliene importava nulla. Anzi, beffardo, ogni tanto esasperava la sua stranezza, allungando le braccia in alto o titillandosi il padiglione di un orecchio. Erano passati i tempi in cui, conformista, vestiva giacca e cravatta e andava a lavorare tutti i giorni.
Una giornata, ventiquattr’ ore: dodici di lavoro, una di spostamenti, due di rapporti sociali (madre, padre, fratelli, fidanzate, amici), una di igiene, una dedicata al cibo, sei di sonno… una per varie ed eventuali.
Dieci anni così. Di costrizione, asfissia, sensazione di limitatezza e di alienazione.
Dieci anni in cui non era mai riuscito a trovare il tempo di leggere neanche un libro!
E pensare che per lui leggere era sempre stata un’esigenza vitale,  così divorante da sfiancargli le carni.
La sua mente soffriva nell’inattività: i suoi meandri celebrali dovevano sempre essere stimolati; il suo unico desiderio fin da bambino era stato quello di sapere tutto.
 Detestava l’idea di non essere informato su qualsivoglia argomento.
 Si sentiva umiliato al solo pensiero.
La sua fame di conoscenza non si placava mai.
 Novità, novità, novità … Perché vivere altrimenti?
Da giovane era stato un atleta, aveva mangiato e bevuto in modo pantagruelico nelle trattorie e nei ristoranti di lusso, aveva soggiornato negli hotel più prestigiosi, viaggiato, amato un’infinità di donne: bionde, brune, castane, giovani, mature, morigerate, prostitute, persino un giovane compagno di studi.
Aveva sperimentato tutto l’universo dei sensi.
Il corpo ormai aveva già provato tutto quello che valeva provare. Avrebbe potuto anche lasciarlo morire: la  cosa lo avrebbe lasciato perfettamente indifferente.
Come i rapporti con gli uomini:  non gli interessavano più.
Negli ambienti di lavoro sopportava a fatica la falsità, oppure quello zelo fastidioso che nasconde il vuoto delle persone troppo semplici o troppo paurose.
Nei rapporti familiari detestava l’opprimente senso del dovere, mascherato da amore o da affetto, quel vago attaccamento alle persone che in un modo o nell’altro ci servono e che fanno da contorno alla nostra vita.
 E le donne… catalizzatrici di energia e sentimenti all’inizio, poi inevitabilmente noiose con i loro corpi già esplorati, così come le loro anime.
«Ma perché cercare altrove quello che c’è in un libro…?» pensava. 
« In Balzac, ad esempio, c’è tutto! Non c’è nessun tipo umano, nessuna vicenda che io non possa trovare in Balzac e nella sua Commedie Humaine! » diceva tra sé e sé, osservando la pila di volumi dell’autore francese che aveva sul tavolo.
Disse una volta Oscar Wilde che il più grande dolore della sua vita era stato la morte di Lucien de Rubempré  in “Splendori e miserie delle cortigiane”.
 E anche Odisseo, alle prese con lo stesso passo, versava copiose lacrime sulle pagine, tra lo sconcerto dei frequentatori della “Passerini-Landi”.
Il giorno dopo si diede alla lettura di Céline, in francese…
Era così assorto nella lettura che ad un tratto tutto sparì davanti a lui e si ritrovò a peregrinare assieme a Bardamu, il protagonista di Viaggio al Termine della Notte, per il mondo.
 La sua concentrazione era altissima e sì, sì… c’era riuscito!!.
Oramai pensava con la testa di Céline, ed era tutt’uno con lui.
 Sentiva il suo pessimismo e il suo disincanto per il mondo, il suo sguardo ironico sulle persone
Era persino riuscito ad impadronirsi del difficile linguaggio gergale dell’autore, l’Argot, e a ragionare lui stesso in quello strano idioma. Dopo aver bisbigliato frasi incomprensibili, scoppiò in un’amara risata, che suscitò un «Sttttt» di riprovazione da parte di un ragazzo. Odisseo si riscosse infastidito, fulminandolo con lo sguardo.
 E pensare che ce l’aveva fatta.
 Ecco il senso ultimo della lettura, si era detto! Fondersi con il testo… come fondersi con l’universo!
Poi quel rumore improvviso… e quelle parole che sentiva nel suo cervello erano diventate solo segni sulla carta.
 Lontane anni luce dal suo essere più profondo.
Riprovò il giorno seguente con Dostoevskij arrivando a sentire “il piccolo male”  del principe Myskin nell’”Idiota”, cadendo bocconi sul tavolo, il volto riverso sul libro aperto.
 Una  parola della solita bibliotecaria  preoccupata «Si sente bene?»  lo fece svegliare bruscamente. « Sì.» rispose con la sua voce oscuramente magnetica, alzandosi e abbandonando immediatamente la sala di lettura.
Era la prima volta in tanti mesi che Odisseo usciva prima dell’avviso di chiusura.
Il giorno successivo non si presentò e la bibliotecaria non poteva fare a meno di spiare il corridoio di ingresso alle sale di consultazione in attesa del suo arrivo.
Non si fece vedere per una settimana.
Un pomeriggio tornò.
Era ancora più magro e aveva la faccia stravolta.
La bibliotecaria accennò ad un sorriso, ma lui non sembrò nemmeno accorgersene.
Andò a scegliersi un libro, come sempre, in uno scaffale, ma stavolta lo portò nel salone storico della Biblioteca, quello chiamato Salone Monumentale.
Anche lì si sentiva aggressivo, insofferente.
 Il contatto gomito a gomito con gli altri lo esasperava: i movimenti che intravedeva nel suo spettro visivo, i piccoli colpi di tosse, l’odore acre di sudore di alcuni ragazzi, lo infastidivano al punto tale che stava male fisicamente.
Ora che era riuscito a vivere attraverso le parole, perdendo finalmente la sua fastidiosa corporeità!
Ora che poteva acquistare la suprema sapienza, la perfetta fusione con lo spirito dell’uomo, non poteva avere distrazioni di nessun genere.
 E detestando con tutte le sue forze le persone vicine, al punto da desiderare quasi la loro morte, si dedicò al suo piano.

*§*§*§*
Nel mese d’agosto la Biblioteca “Passerini-Landi” chiudeva tradizionalmente per due o tre settimane.
La bibliotecaria che aveva parlato con Odisseo era stata una delle ultime ad uscire.
I maestosi corridoi deserti irradiavano calore, i libri stessi, distribuiti nelle varie sale, sembravano far caldo, come maglioni esposti in anteprima nelle boutique in piena estate. 
Il metronotte inserì tutti gli allarmi sotto gli occhi della solerte impiegata, che inforco la bicicletta e si diresse a casa.
Nella sala conferenze dietro il Salone Monumentale, quella sempre chiusa al pubblico, una figura nascosta dietro alle bacheche sospirava di gioia.
Aprì la porta a vetri del salone, accese una potente torcia a pile e, con gli occhi lucenti, ammirò gli imponenti scaffali di legno pregiato che perimetravano il Salone che così deserto sembrava immenso ed era tutto suo! Suo!
Odisseo toccò, attraverso le grate protettive, i consunti volumi del cinquecento e ne ebbe un piacere quasi sensuale.
Si sdraiò sul pavimento per contemplare questa immensa quantità di volumi, questi secoli di sapere che ben presto avrebbe assimilato.
 Uscì dal salone e disinnescò tutti gli allarmi.
 Nelle ultime settimane aveva spiato i movimenti dei metronotte e memorizzato tutti i codici d’accesso.
Ora la biblioteca e i suoi duecentomila libri erano suoi, suoi per tre settimane!
 Non poteva accendere la luce perché l’avrebbero intravista all’esterno, così era la torcia ad illuminare i suoi passi.
Odisseo saliva e scendeva dalle scale e, come un maniaco sessuale nel più grande postribolo del mondo, andava a scegliere i libri più belli e preziosi, gli incunaboli più rari.
Ormai la sua lettura era divenuta rapidissima, gli occhi scorrevano le righe con la velocità di un computer.
Non mangiava, Odisseo.
 Beveva solo acqua dai rubinetti dei bagni per non disidratarsi.
A volte il caldo torrido gli imperlava il corpo fino ad infradiciarlo.
 Era stremato. Di notte dormiva per terra, avendo per giaciglio i libri che avrebbe letto il giorno seguente e nel sonno sognava vortici di parole che lo inghiottivano, pronunciate in lingue strane: aramaico, sanscrito, egiziano.
 Era stato ospite dei giardini di Semiramide, aveva ascoltato un concerto di piano sul divano di Odette Swann ed era partito da Macondo al seguito del colonnello Buendia!
Ormai era nel delirio più assoluto: credeva che il semplice contatto con un libro avrebbe trasfuso tutto il suo contenuto fin nel suo midollo e così toccava tutti i volumi uno ad uno, arrampicandosi sulle scale, per raggiungere quelli più alti, quelli più antichi.
Non avrebbe mai potuto leggerli tutti in una vita, ma toccarli sì… Sfiorò un libro di preghiere medioevali e in tutta la Biblioteca si diffuse come in filodiffusione un canto gregoriano.
Guardò il suo corpo sudato e scheletrico.
Ormai non sopportava nemmeno più di ottemperare ai più evidenti bisogni fisici per non sottrarre tempo alla lettura.
Persino bere un goccio d’acqua da un lavandino significava perdere minuti preziosi per dissetarsi alla fonte del sapere.
 Aveva rinunciato anche a dormire… temeva che qualcuno si sarebbe introdotto nel Palazzo per effettuare qualche controllo e allora avrebbe dovuto interrompere la sua missione.
Dopo sette giorni giaceva quasi esanime nella sala a scaffale aperto, la luce ormai spenta, i morsi della fame che lo divoravano.
Trovò in tasca un lussuoso accendino, ricordo dei tempi in cui si ubriacava, andava a donne, fumava…e fece luce.
 In preda alla fame si trascino verso uno scaffale e afferrò un libro. Dapprima incerto sul da farsi, poi con ferocia, si mise a strappare le pagine e a deglutirle, una ad una.
 Dopo i primi bocconi cominciò ad avere la consapevolezza di quello che stava facendo.
Nella sua allucinazione immaginava di avvicinarsi ad un cibo sacro.
Il sapore era acre e la durezza delle pagine gli graffiava l’esofago.
Quando finì il suo pasto belluino, guardò il libro che aveva divorato: era l’Inferno Dantesco, il prezioso volume illustrato da Doré.
 A quella vista perse la testa e si senti dannato, dannato per sempre.
Lo sfogliò febbrilmente e vide che una parte si era salvata.
Solo un canto.  Il XXVI, Il canto di Ulisse. Ulisse…Odisseo!
Il nome che rimbalzava di bocca in bocca nei corridoi al suo passaggio e che ora gli appariva nella sua tragica coincidenza.
Tutti i tasselli cominciavano a quadrare.
L’universo stava tessendo il suo destino. Forse stava per raggiungere davvero la fusione totale tra vita e arte, tra vita e sapere.
 “ Fatti non foste a viver come bruti, ma per seguir virtute e canoscenza”…
Ma a rincorrere il sapere si finiva nella dannazione, non era stato così fino ai tempi dell’albero dell’Eden?
 Un prezzo alto, ma non troppo alto da potervi rinunciare.
Nell’illustrazione di Doré Dante e Virgilio contemplavano attoniti le fiamme che avviluppavano i peccatori del girone
Nel magazzino, innescato dall’accendino che gli era caduto a terra, cominciò a divampare il fuoco.
Tutti i sistemi antincendio cominciarono  a suonare e Odisseo urlava come un ossesso, mentre le fiamme avvolgevano il suo corpo.
Aprì la finestra leggendo le ultime parole del suo omonimo:
“Noi ci allegrammo, e tosto tornò in pianto;
ché de la nova terra un turbo nacque
 e percosse del legno il primo canto.
Tre volte il fé girar con tutte l’acque;
a la quarta levar la poppa in suso
 e la prora ire in giù, com’altrui piacque,
infin che ’l mar fu sovra noi richiuso”
Poi si lanciò nel vuoto.
Mentre precipitava accadde il prodigio tanto atteso.
Odisseo si sentì attirare irresistibilmente dal testo che stringeva tra le mani, mentre il suo corpo cominciava a smaterializzarsi fino a scomparire del tutto.
Improvvisamente tutto cambiò attorno a lui ed ebbe la certezza che le lingue di fuoco che lo stavano divorando erano le stesse che stavano osservando il Divino Poeta e Virgilio nel disegno di Doré.
Vedeva lo sguardo pietoso del grande Alighieri, sentiva la presenza del compagno Diomede accanto a lui.
Ora era veramente Odisseo. Era entrato da protagonista nella più grande opera dell’umanità: la sua missione poteva dirsi compiuta.
FINE


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La fine del mondo non c'è stata... e c'è chi è rimasto deluso!
Ecco il mio racconto "Mal comune mezzo gaudio" ispirato alla profezia Maya e pubblicato l'anno scorso dal quotidiano di Piacenza "Libertà"

MAL COMUNE MEZZO GAUDIO di Giusy Càfari Panìco



Una livida alba invernale stentava a risvegliare una Piacenza assonnata e nuvolosa. Tullio, in pigiama, si affacciò alla finestra senza vedere, come al solito, anima viva, poi si guardò allo specchio.
La notte insonne aveva lasciato sul suo volto due occhiaie bluastre e profonde; i radi capelli grigi, che di solito portava incollati sul cranio, erano tutti arruffati. Si allontanò con disgusto e, senza nemmeno pettinarsi e farsi la barba, si mise i soliti vestiti, che non cambiava da settimane, e uscì di casa.
Seduto sul solito autobus, guardava infastidito la vecchietta seduta davanti a lui, che continuava a ruminare rumorosamente una caramella. Un raggio di sole fece capolino dal finestrino. Tullio inforcò gli occhiali da sole, disturbato da quella luce accecante, e scese in Piazza Cittadella, per recarsi a fare la spesa al mercato coperto. 
Nel reparto panetteria fu sommerso dal vociare assordante di alcuni ragazzi che compravano la focaccia per la ricreazione. 
Colorati, chiassosi, impazienti, ridenti. In una parola: irritanti. Mentre aspettava il suo turno, ricordò che da giovane lui non faceva mai merenda, ai suoi tempi non usava! 
Aspettò che sciamassero come vespe velenose, poi fece il suo solito acquisto; la commessa, ancora un po’ addormentata, gli infilò nel sacchetto tre panini, due confezioni di biscotti secchi e un pacco di tortiglioni. 
A pochi metri dal mercato c’era la filiale della sua banca, quella dove riscuoteva la sua pensione. Pensò che qualcosa da parte per pagarsi il funerale ce l’aveva, senza bisogno di ricorrere a quei parenti lontani che non aveva mai sopportato. 
Si sedette di nuovo sull’autobus, nello stesso posto. Stavolta il sole non c’era più: erano tornate le solite nuvole grigie, non si capiva mai se di smog o di vapore acqueo. 
L’avrebbe fatto dopo pranzo. Magari stavolta avrebbe trovato più coraggio.
Gli svantaggi di abitare al pianoterra li aveva già calcolati al momento di prendere in affitto l’appartamento, ma l’inconveniente di non potersi buttare dalla finestra senza farsi il minimo graffio non l’aveva considerato. E farlo da un altro posto non gli andava. Voleva morire a casa sua. Almeno quello, dopo una vita così mediocre. 
Stavolta pensò al gas. Aprì lo sportello del forno e girò la manopola senza accendere la fiamma. L’odore era fortissimo e prendeva lo stomaco, ma Tullio resisteva. 
Al piano di sopra, il cane dei vicini continuava ad abbaiare, facendogli perdere la concentrazione. «Ma basta, cane maledetto»! ebbe la forza di urlare, persino in quel momento fatidico. Fastidioso, quel cane incontinente, che gli faceva la pipì sullo zerbino, fastidioso come tutti i suoi vicini con cui, grazie a Dio, parlava e litigava solo una volta all’anno, alla riunione di condominio.
Aumentò la gittata di gas, ma oltre a sentire il puzzo non succedeva niente. 
«Va beh» disse tra sé e sé «facciamola per bene questa cosa.» Si sdraiò per terra, con la testa dentro il forno. Cominciò a sentire la testa pesante e fu colto da un tale senso di nausea che gli fece salire dallo stomaco alla bocca il pasto appena consumato. Non riuscì a trattenere un conato e si sfogò nel lavandino, poi socchiuse una finestra. Un colpo di vento, presago del temporale, la spalancò completamente e riempì la cucina di aria fresca.
Completamente demotivato, Tullio spense il gas e si impose di riprovarci il giorno successivo.
Ma era inutile: non aveva il coraggio! Aveva provato anche con la corda, ma il soffocamento gli faceva impressione e quella volta si era anche sbagliato a fare il nodo scorsoio, che lui mica era un boyscout!
I barbiturici… Buona idea! Ma in farmacia senza ricetta non glieli avrebbero mai dati e il medico non glieli aveva mai voluti prescrivere. 
«Neanche stavolta!» sospirò tristemente. E aspettò che venisse buio per andarsene a letto.
Durante le notti, tutte insonni, di solito rimaneva sdraiato, in silenzio, a guardare il soffitto. Ma stavolta accese la radio su un’emittente a caso, tanto per dare un po’ di fastidio ai vicini che durante il giorno lo disturbavano con schiamazzi di bambini e strani spostamenti di mobili. 
«Non lo dicono perché non possono ammettere che sia tutto vero, ma la Nasa lo sa perfettamente.» Una voce femminile traduceva in sincrono le parole di uno scienziato americano. «I Maya non hanno effettuato calcoli basandosi su riti religiosi, ma su scienze matematiche di cui erano maestri, confermate dai più illustri studiosi internazionali. Le avvisaglie si vedranno nel cielo. L’azzurro comincerà ad assumere sfumature verdognole, giorno dopo giorno, finché la mattina precedente il cielo sarà completamente verde … fino al tramonto.» «E l’umanità?» chiese l’intervistatore italiano. «Sterminata dall’impatto con un enorme asteroide» rispose la traduttrice, mentre lo scienziato pronunciava la stessa frase in inglese con voce tremante. «Ma questo è solo l’aspetto scientifico» interloquì un pastore sudamericano. «Si udrà fortissima la tromba dell’Arcangelo Gabriele: la sentiranno tutti e sarà l’inizio della fine…»
Il segnale si interruppe improvvisamente. Tullio prese in mano la vecchia radiolina a transistor e cercò spasmodicamente di sintonizzare meglio il canale. Niente. Quella strana emittente sembrava scomparsa . 
«E se fosse vero? » si chiese speranzoso.
Dalla stanza accanto si sentivano i gemiti di due giovani amanti. «Godete godete: tanto ne avrete per poco» urlò sorridendo beffardamente.
Da quel momento la fine del mondo diventò per lui una vera e propria ossessione. Comprò tutti i testi apocalittici che trattavano dell’anno 2012, e tutte le notti studiava le profezie di Nostradamus cercando di trovare in ogni terzina un nuovo significato; l’Apocalisse di San Giovanni, poi, non aveva più alcun segreto per lui. A furia di documentarsi si era convinto: il momento era arrivato. Finalmente. 
Era talmente certo di questa notizia che non aveva più tentato di farla finita da solo. Dal panettiere lasciava passare avanti i ragazzi vocianti senza più brontolare, tanto poi non avrebbero più rotto le scatole né a lui né agli altri. Anzi, una volta aveva persino detto loro «Prego prego…» ridacchiando.
Le persone che lo incontravano per strada, che lo avevano spesso additato per la sua stranezza e per il suo abbigliamento scuro e trasandato, non potevano fare a meno di notare sul suo volto rugoso un insolito sorriso, quasi beffardo, senza capirne il motivo.
Passarono mesi di trepidante e speranzosa attesa, finché arrivò il tanto sospirato 20 dicembre 2012.
Tullio era in gran forma. Dalla settimana precedente su tutti i telegiornali e su internet circolavano voci sull’effettivo passaggio dell’asteroide vicino alla terra. La Nasa aveva rassicurato l’opinione pubblica: dalla stazione spaziale internazionale si stava provvedendo in merito, non c’era nessun pericolo. Il presidente della Repubblica aveva rassicurato gli italiani, a reti unificate: «Non siamo più nell’anno mille!» aveva ammonito con solennità. «Invece di occuparsi di queste superstizioni occorre risolvere i problemi reali del paese: la disoccupazione, l’immondizia di Napoli, il PIL!»
Lo dicevano per evitare il caos, pensava Tullio. Proprio come avevano avvisato alla radio quella notte. Nel frattempo le notizie della caduta dell’asteroide, minimizzate dalla televisione e dai giornali, si stavano diffondendo a macchia d’olio su internet e per le strade.
All’alba del giorno successivo, Piacenza era meno sonnacchiosa del solito. Tutti sembravano essere usciti di casa in anticipo, per vedere che aria tirava. Il cielo era di uno strano colore: verde, nonostante lo smog cittadino, nonostante le nuvole.
Tullio non riuscì a trattenere un urlo di gioia: «Sììì!». Finalmente qualcosa che avrebbe scosso la noia dei suoi giorni, finalmente anche gli altri avrebbero provato il suo malessere di vita, finalmente sarebbe riuscito nel suo intento.
Andò a far la spesa con un sorriso smagliante. Si accorse che la panettiera, allungandogli il sacchetto, aveva la faccia terrorizzata, probabilmente aveva ascoltato da poco il telegiornale.
«Ma lei non è preoccupato?» gli chiese. «Io?» e Tullio dopo una lunga pausa rispose: «Mai stato più felice in vita mia!» 
Tornò a casa e guardò soddisfatto quel verde che preannunciava l’apocalisse e che sovrastava Piacenza da giorni. Che importava se gli altri davano la colpa all’inceneritore. Lui sapeva. 
Alle ventitré in punto si mise il pigiama per andare a letto, come al solito. Indossò quello più bello, per l’occasione. 
Il condominio era stranamente silenzioso, come se la paura, che nell’ultima settimana si era diffusa ovunque, avesse tolto la voce anche ai bambini e ai cani. 
Con una pace mai provata, Tullio appoggiò la testa sul cuscino e, prima di addormentarsi, con una risatina sulle labbra, sussurrò: «Mal comune mezzo gaudio!», poi si abbandonò dolcemente, per la prima volta dopo anni, tra le braccia di Morfeo.
Dopo aver dormito saporitamente per ore, Tullio si svegliò e, al buio, non poteva capire che ora fosse. Era ancora vivo, purtroppo. Sbuffò. 
Ma magari per poco. Rimase in attesa, incerto se riaddormentarsi di nuovo o aspettare che il destino facesse il suo corso, cogliendolo magari nel sonno. Splendida fine! Meglio del nodo scorsoio che non gli riusciva mai.
Un prolungato squillo di tromba lo fece sussultare. Poi un altro. E un altro ancora. Fino a diventare dieci, quindici, venti o forse più. Tanto da costringerlo a tapparsi le orecchie.
L’arcangelo Gabriele, si disse!! Erano strani suoni, però: meno solenni di quello che si aspettava. «Si è ben modernizzato» pensò. Prima di aprire gli scuri delle finestre che davano sulla strada, se lo immaginò lì fuori, con le ali immense, pronto a dare il via al Giudizio Universale, attorniato dalla sua divisione angelica. «Pepperepeeeee!»
Spalancò la finestra e, accecato da un sole vivo, rimase senza fiato.
Centinaia di macchine facevano i caroselli per tutta la città, con le trombette dello stadio e con i clacson. Un grande urlo liberatorio echeggiava da tutte le parti. I festeggiamenti per i mondiali di calcio non erano stati nulla al confronto: tutti erano scesi in strada, e si abbracciavano gli uni con gli altri. I padri portavano i bambini sulle spalle, le donne urlavano di gioia, i ragazzi gridavano «Chi non salta Maya è!».
Sconcertato e deluso, Tullio chiuse la finestra e accese il televisore.
Su tutti i canali, in mondovisione, Barack Obama, il presidente degli Stati Uniti, spiegava in diretta i dettagli della missione più segreta e difficile della storia : la deviazione della traiettoria dell’asteroide che avrebbe potuto distruggere la Terra. 
«Ringrazio tutte le nazioni del mondo, che hanno fornito uomini, idee, basi logistiche: dalla Russia alla Cina, dall’Unione Europea al Giappone. Sì, ce l’abbiamo fatta! E’ una vittoria del mondo, una vittoria dell’umanità!»
«Ma va a….» Tullio si vestì e fece colazione, poi scese sulla strada e si diresse alla fermata dell’ autobus.
Circondato dalla folla, camminava a fatica e dovette persino dare qualche spintone. Un ragazzo di quelli che andavano a comprare la focaccia lo riconobbe, lo abbracciò e gli diede una pacca sulle spalle, urlandogli felice: «Ce l’abbiamo fatta, siamo vivi! Vivi! ». 
Tullio gli rispose mestamente «Sì, sì…» camminando a capo chino tra la folla festante. E mentre aspettava l’autobus, sospirò con aria rassegnata: «Neanche stavolta!».
FINE

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10 dicembre 2012
E' arrivata la neve. E per me è già Natale.
Eccovi il mio regalino per voi, la mia favola di Natale e l'illustrazione realizzata appositamente per questo racconto da Valentina Magnaschi. Buone Feste!



L’ONESTO NATALE DI UN LADRO (GCP)




“Aspetti, aspetti!”
Un’anziana donna, carica di sacchetti della spesa, rincorreva un autobus che stava ripartendo dalla fermata. L’autista riaprì le portiere e le permise di salire. La signora, con il fiatone, trovò a malapena un posto a sedere. Alle sue spalle Giorgio, in piedi e senza biglietto, si guardava attorno furtivamente, pronto a scendere se fosse arrivato il controllore.
Era passato molto tempo da quando aveva preso un autobus, forse dai tempi della scuola. In fabbrica avevano avviato la riqualificazione funzionale e gli avevano dimezzato le ore di lavoro. Era stato costretto a vendere la macchina. Di solito andava in bicicletta, ma con quella neve non gli sembrava proprio il caso.
La signora con i sacchetti guardava fuori dal finestrino una Piacenza che, nonostante il disagio,  le sembrava più bella  e luminosa, quasi magica.
Nelle strade imbiancate le grandi ruote del mezzo tracciavano binari scuri e profondi che impavidi  pedoni utilizzavano come sentieri. Si ritenne fortunata di essere riuscita a salire sul pullman.
Giorgio vide che da una delle borse di plastica sbucava un vasetto di mostarda che la signora avrebbe sicuramente  aperto per Natale.
“Ma Natale è domani! Mannaggia!” si diede una manata sulla testa: doveva ancora comprare i regali per Giada e Lorenzo.
Un’adolescente e un bambino non ci mettono molto a provare disprezzo per un padre che vedono poco e che per di più non mantiene le promesse.
“La prossima volta vi porto il regalo di Natale”, aveva esclamato sull’uscio della casa dell’ex moglie, sotto il loro sguardo dubbioso.
“Sarebbe già tanto che ti ricordassi di mandare l’assegno tutti i mesi” e la donna gli aveva chiuso la porta in faccia.
Un motorino, che arrancava tra i cumuli di neve, si rovesciò e il pullman per non investirlo fece una brusca frenata. Da uno dei sacchetti dell’anziana scivolò fuori il vasetto di mostarda che Giorgio si chinò a raccogliere e prontamente restituì.
Anche la borsetta era scivolata  per terra ed era mezza aperta. Un pensiero gli balenò in testa.  Perché no? Aveva bisogno di denaro e forse dentro c’era la pensione della vecchia.
Gli sembrava di avere tutti gli sguardi puntati addosso, ma nessuno faceva caso a lui. Chi parlava al telefonino, chi si lamentava per la frenata di prima, alcuni ragazzini ascoltavano l’i-pod.
Finse di allacciarsi le scarpe e, con una mossa fulminea, aprì completamente la borsa, afferrò il borsellino e se lo mise in tasca.
“Ho perso la borsetta, povera me!” gridò la vecchietta, che si accingeva a scendere e un giovane, scorgendola a terra, la raccolse e gliela porse, mentre le portiere si aprivano alla fermata di Piazza Borgo. “Grazie, grazie!”
Giorgio scese in Piazza Cavalli, con le mani affondate nelle tasche del piumino grigio, l’ultimo dono di sua madre prima che morisse. Faceva freddo, tanto freddo.
Le bancarelle del mercatino di Natale, nonostante la neve, erano state allestite ugualmente  per vendere gli ultimi regali ai ritardatari.
Giorgio aprì il borsellino nero, di foggia antica, con l’apertura a scatto, e vi trovò trecento euro in biglietti di piccolo taglio. Esattamente l’affitto mensile che avrebbe dovuto consegnare al suo padrone di casa.
Lui, nel suo, ne aveva solo cinquanta, di euro, e gli sarebbero dovuti bastare fino alla fine del mese. Si fermò in tutte le bancarelle e acquistò un berretto e una sciarpa per Giada, un caleidoscopio per Lorenzo e, per sé, la riproduzione dei due angioletti di Raffaello, da appendere nel monolocale dove abitava da poco. Perché anche per lui era Natale! Giusto cinquanta euro.
“Grazie”,  “Grazie Pà”. I ragazzi, in piedi, nell’anticamera della loro casa, tenevano i pacchetti in mano senza aprirli.
“Beh?”, fece Giorgio, “ Non guardate neppure cosa c’è dentro?”
“ Li apriamo tutti a mezzanotte.” , rispose Giada, tastando il pacchetto morbido per indovinarne il contenuto.
“ Non ti ricordi?”, Lorenzo gli era andato vicino, guardandolo con durezza, mentre da lontano Nadia, la moglie, abbassava gli occhi.
“ Certo che mi ricordo!” esclamò Giorgio a voce alta. “ Solo, come faccio a sapere se vi sono piaciuti?”
“ Ti mandiamo un sms.” rispose Giada.
“ Già, un sms… Va bene. Beh, auguri a tutti.” e Giorgio aspetto che i due figli si avvicinassero frettolosamente per dargli il bacio tradizionale di Natale e poi si lasciò la porta alle spalle.
Entrò in un bar vicino e cercò una moneta per prendersi un caffè.
Trovò in tasca il borsellino rubato e lo tirò fuori. Aveva una tasca laterale. Con un po’ di pudore guardò dentro. C’era l’immagine dei due angioletti che aveva appena acquistato, quelli che piacevano tanto alla sua mamma.
Tirò una bestemmia, poi si accorse che il gestore del bar lo stava guardando male. Proprio a Natale, le bestemmie.
C’era anche una foto in bianco e nero di un uomo con una grossa cravatta e i capelli radi. Sarà stato il marito, pensò.  Sotto, il nome: Alcide Sogni.
Prese il suo, di portafoglio, quello che si era comprato a Eurodisney durante l’ultima vacanza che aveva passato insieme alla sua famiglia. Gliel’aveva fatto prendere Giada e aveva il marchio di Topolino. Era lì che conservava la foto di sua madre e dei suoi figli.
Bestemmiò ancora pensando che chi ha inventato gli scrupoli di coscienza ha fatto un buon lavoro. Ma la vecchia non le poteva mettere da un’altra parte tutte queste cose?
“ Mi dà un elenco telefonico, per favore?” Giorgio si mise a sfogliarlo fino a che non trovò Sogni Alcide,  Via San Sepolcro n°…
Si segnò il numero di telefono e pensò di chiamare, ma non sapeva cosa dire. “ Sono il ladro e voglio ridarle la foto di suo marito?” No.
Allora, senza accorgersene, cominciò a camminare con passo svelto, scendendo giù nel cuore popolare di Piacenza, lo stesso dove era nato.
La neve stava ricominciando a cadere e non aveva l’ombrello. Il giubbotto era tutto bagnato.
Alcide Sogni. Ormai erano le sette e mezzo di sera quando aveva suonato il campanello.
“Chi è?” Una voce un po’ sospettosa gracchiò dal citofono.
“ Signora Sogni… ho trovato il suo borsellino e sono venuto a restituirglielo”
“Oh, venga venga!! Terzo piano.”
Mentre saliva le scale della modesta palazzina, gli arrivarono alle narici piacevoli profumi provenienti dalle cucine, dove fervevano i preparativi per la cena della Vigilia.
Sentì una chiave girare varie volte nella toppa, poi da una porta appena socchiusa si affacciò la vecchietta del pullman.
“ Eccolo.” Giorgio  le porse in fretta il borsellino. “ L’ho raccolto quando è scesa alla sua fermata, ma ormai era troppo tardi per raggiungerla. Buonasera.”
“ Oh, grazie di cuore!”  L’anziana gli strinse le mani con riconoscenza. “Lei non sa quanto ero disperata. Non tanto per la mia pensione, ma per i ricordi. Sa, alla mia età…”
“ Si immagini.” e l’uomo  si diresse verso le scale.
“Aspetti!”, lo rincorse. “ Ma dove va? È tutto bagnato. Prenda almeno un caffè.”
Giorgio era imbarazzato, ma senza volere si ritrovò seduto al tavolo rotondo della piccola cucina, dove una stufetta emanava un piacevole calore.
“ Ma lei è il signore della mostarda!” l’anziana gli si rivolse come a un vecchio amico. “ Devo ringraziarla doppiamente. Prenda ancora un po’ di caffè.”
La signora si chiamava Adele ed era vedova da poco. Quella foto del marito era l’unica rimasta dopo che le avevano rubato in casa.
“Lei non si immagina che gente che c’è in giro…” scosse la testa. “ Mica sono tutti come lei. Non manca neanche un euro dal mio borsellino!”
Giorgio, che aveva rimesso dentro i cinquanta euro spesi, si mosse sulla sedia, sentendosi a disagio. Si alzò per andarsene quando gli cadde a terra il quadretto con i due angeli che si era comprato al mercatino di Piazza Cavalli.
“Oh, che combinazione!” , esclamò la vecchietta. “ Sembrano quelli che porto sempre con me.”
“Ecco” disse Giorgio, “Mi ero dimenticato: sono per lei. Ho visto gli angeli nel suo borsellino e ho pensato di farle un piccolo dono, ma adesso devo proprio andare.”
“Ma ha mangiato?” lo trattenne la Signora Adele. “ Guardi, anche se è morto mio marito, ho deciso di preparare la cena della Vigilia per due, come se  lui ci fosse ancora. Sa, io sono di origine meridionale e da noi è tradizione cenare con la zuppa di pesce. A lei piace? Ah, poi le apro la mostarda! Sempre che non ci sia nessuno che la aspetti a casa.”
A Giorgio si inumidirono gli occhi e mentre la bocca diceva alla signora che non poteva accettare i piedi e le gambe rimanevano fermi e si sedettero al tavolo mentre Adele, felice, apparecchiava per due.
Il suo giubbotto, appeso vicino alla stufa, si stava asciugando.
Dopo la cena Giorgio aiutò Adele a riordinare.
Mentre riponeva l’ultima posata nel cassetto, Giorgio pensava con nostalgia a tutte le Vigilie che aveva  trascorso insieme a sua madre, che si concludevano sempre con la messa di mezzanotte.
“Adele, andiamo alla messa di Natale?”
“Ma no, con tutta questa neve e questo freddo: rischio di rompermi una gamba! Una volta ci andavo, ma ora ho paura!”
“Non si preoccupi: la sorreggo io.” E lungo le stradine della vecchia Piacenza rese ancora più sdrucciolevoli dalla neve, quella strana coppia, il ladro e la derubata, camminava sottobraccio.
La chiesa di San Sisto, illuminata a giorno, risplendeva nella magnificenza dei suoi affreschi e dei suoi addobbi rossi e dorati. L’organo maestoso iniziò a diffondere le notte gioiose di Notte Silente, Notte di Natale; dal coro la voce bianca di un bambino, sottile e delicata come un filo di seta, dettava l’inizio di “Astro del ciel”.
Al centro della navata centrale, sopra l’altare maggiore, troneggiava la magnifica Madonna Sistina di Raffaello, con Gesù Bambino in braccio, mentre gli angioletti dipinti ai piedi del quadro sembravano strizzare l’occhio a Giorgio.
“Ce li hanno rubati i tedeschi” gli sussurrò Adele. “ Si sono comprati l’originale.” E l’uomo rispose serio: “Sono così belli che viene proprio voglia di rubarli.”
Quando, a mezzanotte, le campane si misero a suonare a festa, la vecchietta disse a Giorgio: “ Esprima un desiderio: è Natale e oggi ha fatto tante buone azioni. Il Buon Dio la esaudirà.”
“Non credo” le rispose Giorgio e intanto guardava, appesa al braccio di Adele, la borsa da cui aveva rubato solo poche ore prima. Ma lo espresso lo stesso.
In quel preciso momento sentì vibrare in tasca il telefonino. Era un sms.
“Belli i regali! A Lorenzo piace da matti il caleidoscopio e il berretto e la sciarpa hanno dei colori stupendi. Ah, ha chiesto la mamma se domani vieni anche tu a pranzo. Buon Natale papà!”

FINE





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1° dicembre 2012
Questa settimana vi propongo il racconto contenuto nella nuova antologia di racconti "Fedele al Mito" il cui ricavato andrà all'Associazione Marchigiana Amico Fedele  dedicato ai nostri amici a quattro zampe e ai miti dell'antichità. Per tutte le informazioni vi rimando al post in home page http://comelalunadigiorno.blogspot.it/2012/11/fedele-al-mito.html



IL TALLONE D’ACHILLE di GCP


Fuori dalle mura di Troia, il fragore delle armi dei combattenti disturbava il sonno della bella Elena che, adagiata su un lussuoso giaciglio, riposava mollemente con i suoi lunghi capelli castani sciolti lungo le spalle nude.
Paride, a torso nudo, deposti gli abiti principeschi che indossava nelle sale della reggia del padre Priamo, si coricò vicino a lei, sfiorandole la pelle bianchissima con le labbra.
«Amore», le sussurrò, «Non dormi?»
La splendida bocca della donna si corrucciò per un attimo, poi si aprì in un sorriso bianchissimo e invitante. Paride non seppe resistere a questo richiamo e si chinò a baciarla con passione.
«Ahia!» A pochi millimetri dal viso divino di Elena, il giovane fece una smorfia di dolore e si alzò bruscamente dal giaciglio, mentre un minuscolo cane si metteva ad abbaiare forsennatamente.
«Micron, Micron!» Elena tese le braccia verso un piccolo quadrupede dal mantello marroncino e dalle orecchie lunghe, che le balzo sul petto, leccandole il viso.
«Ecco, sempre a lui tutte le tue tenerezze! Brutto figlio di…» E Paride le strappò con violenza il cagnolino dalle braccia e alzò una mano ostile verso di lui.
«Che Zeus ti maledica se oserai picchiarlo!» urlò Elena, colpendolo con i suoi piccoli pugni sulla schiena. «Scapperò da Troia, tornerò da mio marito!»
A questa minaccia Paride si paralizzò. L’incantesimo che lo aveva reso succube di quella donna lo avvinse ancora una volta. Con un gesto umile si gettò ai suoi piedi, liberando il cagnolino che, felice per lo scampato pericolo, si mise ad abbaiare festante.
«Ho lottato tanto per averti», le sussurrò baciandola, «Ho fatto persino scoppiare una guerra! Sarei un pazzo a lasciarti andare per un motivo così futile… Ahia!!»
Micron gli aveva morso un polpaccio.
«Non sei simpatico a Micron. D’altronde sai, me l’aveva regalato Menelao, il mio ex. Forse è un po’ geloso di te. E ha ragione: sei così bello…», cercò di blandirlo la donna.
Paride girava furibondo per la stanza, mentre Elena accarezzava sul capo il volpino, che stringeva gli occhietti, beato.
«Ancelle, ancelle!» urlò, con tutta la forza che mai nella sua vita aveva prodotto in una battaglia.
Tre schiave, vestite di bianco, apparvero all’istante, inchinandosi al loro principe.
«Portate il cagnolino della mia sposa a mangiare. E fategli fare un bel giro nel parco della reggia»
Elena, a malincuore, lo tese alle donne. «Abbiatene cura!», raccomandò loro.
Poi rimproverò Paride: «Tu non hai idea di quanto Micron mi sia stato vicino in questi anni. Comprendi il mio trauma: trasferirmi dalla Grecia a Troia, accompagnata da una pessima fama…»
«Lo so bene, quanto ti sia stato vicino. Così tanto che non abbiamo mai avuto nemmeno un erede!», sbuffò il più giovane tra i figli di Priamo.
«Che brontolone», sorrise Elena, accogliendolo tra le sue braccia al posto di Micron. «Con il tempo lo apprezzerai, vedrai!»
«Ora sì», mugugnò soddisfatto Paride, chiudendosi la porta alle spalle.
Nel giardino della Reggia, Micron correva felice tra gli alberi secolari, che Ecuba, la moglie di Priamo, curava personalmente, ispezionandoli ogni mattina.
Quel mattino l’anziana regina stava passeggiando con Astianatte, il nipote preferito. Mentre il bambino giocava con il volpino, rifletteva: «Volesse il cielo che tutto potesse tornare come prima, piccola bestiola. Prima che arrivasse la tua padrona a scatenare la guerra!»
«Ciao papà!» Il piccolo abbracciò Ettore, che attraversava pensoso il parco. L’uomo era altissimo e muscoloso ed era munito di armatura e scudo. L’eroe troiano sorrise al figlioletto e, dopo esserselo caricato sulle spalle, gli fece fare una corsa con la sua spada in mano.
«All’attacco! A morte i nemici!», urlava il bambino. A queste parole l’uomo, che aveva negli occhi scuri un’ombra di tristezza, lo fece scendere a terra. «Non raccontare niente a tua madre. Non dire che abbiamo giocato alla guerra. Sai che si arrabbia».
«Dove vai ora?» gli chiese Astianatte.
«Ho un duello con un principe greco, un grande combattente. Il più forte del mondo», sospirò preoccupato.
«Mai come te, però, papà», esclamò sicuro Astianatte.
Commosso, Ettore gli accarezzò i capelli. «Mamma, riportalo da Andromaca, ti prego».
Mente la stanca donna assentiva, Micron abbaiava festante attorno ad Ettore.
«Questo è il greco più simpatico che è arrivato a Troia», esclamò e ordinò a un’ancella: «Portategli un osso: il più bello e succulento che esista in tutta la Reggia!»
Nel frattempo, l’eroe greco Achille pensava che aveva sempre detestato i cani, e viceversa, e non capiva il perché.
Anche quando era andato in visita a Itaca, dal Re Ulisse, quel bestione di Argo gli era saltato addosso. «Basta, basta!» aveva urlato spaventato l’eroe più forte di tutta la Grecia e forse di tutto il mondo conosciuto all’epoca.
Achille osservava tutte le incisioni che il dio Efesto gli aveva forgiato sul suo celebre scudo e avrebbe voluto cancellare il cane da caccia che era impresso in un piccolo angolo.
«Però, che opera d’arte!», si compiaceva tuttavia, facendolo brillare al sole. Solo per descriverlo ci sarebbero volute ore e ore. Un aedo ci avrebbe persino potuto scrivere un poema.
D’altronde, tutto l’Olimpo si dava da fare quando si muoveva sua madre, che era una Dea pure lei. Era sempre stato così, fin da quando era piccolo. Giocava a nascondino con Atena ed Era, e se aveva bisogno di un postino, la mamma chiamava direttamente Ermes.
Gli mancava molto una vita normale. Sua madre Teti, Ninfa delle acque, stranamente non gli aveva mai comprato un cane, tanto per tenergli compagnia.
Ecco perché si era tanto affezionato al suo amico Patroclo.
Sospirò amaramente: la guerra gliel’aveva tolto. Una guerra che non aveva mai avuto veramente voglia di combattere. Nonostante fosse il più forte di tutti, quello dal piede più veloce, dalla voce più tonante, dal braccio più potente, dal corpo più perfetto.
Dura la vita, anche per i semidei.
«Al lavoro!», esclamò, chiamando gli schiavi per farsi aiutare a indossare l’armatura.
Intanto Micron si era introdotto nelle cucine della reggia, scortato dalle ancelle, che chiedevano per lui l’osso più gustoso che potesse esserci. Il gran cuciniere era indaffarato a preparare il pranzo nientemeno che per il Re e non voleva essere disturbato. Fu un attimo: con un balzo improvviso il cane si impadronì di un pezzo di carne che il cuciniere stava spolpando accuratamente.
«Fermo: non è un osso! Quello è il pezzo migliore: il pezzo del Re!», urlò inorridito il cuoco, mentre tutta la cucina si metteva alla caccia del cagnolino, che si era dileguato con il prezioso bottino.
Una folla di cuochi, servi e guardie inseguiva il volpino per tutta la reggia, facendo inciampare la principessa Cassandra, che profetizzò immediatamente: «Non lo prenderete! Questo cane deve prima adempiere al suo destino di morte», mentre tutti, come sempre, facevano le corna o si toccavano al suo passaggio.
Ma di solito Cassandra ci beccava sempre nei suoi vaticini, quindi, dopo due o tre giri di reggia, nessuno riuscì più a trovare il cagnolino.
Micron, intanto, nascosto dietro il trono di Priamo, se la spassava come un matto, mangiandosi quel prelibato spuntino e riducendolo fino all’osso.
Abbaiando, entrò trionfante nella camera di Elena, per mostrargli il risultato della sua impresa.
«Amore… », sussurrava Paride alla sua amata, sprofondato nel talamo nuziale.
«Bau bau bau!», li interruppe Micron, con l’osso in bocca.
«Eccoti, amore mio!» Elena si scostò bruscamente dal bel principe troiano e, coperta solo dai suoi splendidi capelli, gli si accovacciò vicino. «Tesorino! Fammi vedere cosa mi hai portato! Ma che bello e che bravo!»
L’ira di Paride si fece tremenda. «Dei dell’Olimpo! Afrodite! Tu che dieci anni fa mi facesti perdere la testa e innamorare di questa donna, dammi la forza di liberarmi da questo scocciatore che mi tiene lontano dalla mia amata!!», invocò, alzando gli occhi al cielo, poi, difendendosi con un lenzuolo, tolse l’osso dalle piccole fauci del cane e, tra le urla di Elena, lo lanciò fuori dalla finestra.
L’osso, spinto da Afrodite, volò lontanissimo, arrivando addirittura fuori dalle mura di Troia, e atterrò nell’accampamento dei Greci.
Micron si lanciò dalla finestra per afferrarlo quindi si mise a correre per riportarlo indietro. Come gli piacevano quei giochi!
In campo avverso, la vestizione di Achille non era ancora completata. Gli schiavi, prima di procedere, gli avevano cosparso il corpo di uno speciale unguento, ideato da Atena, che gli avrebbe raddoppiato le forze. Non che ne avesse bisogno: il suo corpo era invulnerabile, potentissimo e invincibile fin dalla sua nascita.
Ecco perché sua madre non l’aveva mai fatto giocare con gli altri bambini, per paura che lui facesse loro del male, tanto era forte.
Solo un punto del suo corpo era vulnerabile, ma sua madre non gli aveva mai rivelato quale, per non fargli perdere l’ardimento, per non condizionarlo in battaglia.
Achille era sempre stato curioso di sapere quale esattamente fosse. Ma cosa importava? Lui era il più forte di tutti e l’avrebbe dimostrato proprio quel giorno, uccidendo Ettore, il suo grande rivale.
“Sdeng” Uno strano suono lo fece sussultare, mentre gli schiavi stavano per fargli indossare i calzari da battaglia.
«Lo scudo di Efesto!», urlò uno dei soldati. Achille ordinò il silenzio e vide che a fianco del suo divino scudo, leggermente incrinato, stava un osso di montone, o di chissà quale altro animale, residuo di un pasto recente.
«Il mio scudo come il coperchio di una pattumiera?? Ma dove credete di essere? Chi, chi è stato??» La sua ira era davvero funesta, e gli si fece il vuoto attorno.
Brandendo la lancia, si mise a ispezionare tutti i militi, mentre l’addetto alla sua vestizione, con un panno pregiato, sfregava e ripuliva lo scudo di Efesto sacrilegamente imbrattato.
Mentre tutti erano terrorizzati, in attesa del probabile castigo, arrivò Micron, che, abbaiando come sempre, cercava il suo bellissimo osso.
Achille si ritrasse infastidito. «Ah, è tuo, cane di un Troiano!», esclamò puntandogli contro la lancia e tenendo in mano l’osso. E poi, ai suoi schiavi: «Sbrigo questa faccenda e poi torniamo alla vestizione… Ahia!»
Micron gli aveva morso il tallone, facendogli cadere dalle mani l’osso, che aveva riacciuffato prontamente.
«Prendetelo, non fatevelo scappare!!», urlò Achille, ma, mentre lo ordinava, la sua immagine sbiadiva davanti agli occhi dei suoi. «Ma che aspettate??», urlava, mentre la sua sagoma si faceva sempre più indistinta.
«Ma che succede?? Vedo i Campi Elisi, vedo il divino Zeus! Ma allora il tallone d’Achille… era proprio il mio!!»
E queste furono le sue ultime parole, mentre Micron, approfittando della confusione generale, se l’era data a gambe, anzi, a zampe levate.

La notizia della scomparsa di Achille e della conseguente richiesta di armistizio presentata da Agamennone, comandante degli Achei, arrivò immediatamente a Troia, stremata dall’assedio.
Ettore, già pronto al combattimento, era stato fermato alle porte della città.
«Ma chi è stato? Cosa?? Un cane?»
«Io l’avevo profetizzato», assicurò Cassandra, che, come sempre, fu mandata a quel paese da tutti.
Paride, nel frattempo, appagato d’amore, si stiracchiava accanto alla bella Elena, che aveva apprezzato il suo ardire. «Con le donne bisogna fare un po’ i duri», pensava specchiandosi.
«Bau bau bau bau!»
«Ancora tu!», gridò esasperato, e fece per allontanarlo dalla stanza, quando entrarono in gruppo il Re Priamo, la Regina Ecuba, i principi Ettore ed Enea e tutta la Corte Reale.
«Fermo! Non osare punirlo», decretò Priamo, «Questo cane ha sconfitto il più valoroso dei Greci e per questo merita il più alto dei riconoscimenti!»
Pronunciò un discorso di tre ore, al termine del quale chiamò un servo, che portava un prezioso monile appoggiato su un cuscino di seta.
«Con l’aiuto di Apollo, Dio delle Arti, il fabbro di corte ha forgiato in poco tempo un prezioso gioiello, simbolo della riconoscenza della città di Troia a un suo cittadino illustre. Questo è per te, principe Micron!», e con grande solennità appese al collo del cagnolino un bellissimo osso d’oro.
Tutta la corte esplose in un applauso fragoroso, mentre il cagnolino scodinzolava felice.
«Ma allora non devi più combattere papà!», festeggiava Astianatte, mentre Ettore, perplesso, si toglieva l’armatura.
«E’ tutto merito del mio cagnolino!», cinguettava Elena.
«Non capisco, io avevo profetizzato che in questa guerra c’entrasse un cavallo…», si grattava dubbiosa la testa Cassandra.
«Ma sta zitta, iettatrice!», le urlarono in coro tutti.
 «Mai che si abbia un momento di privacy in questa stanza!», brontolò Paride mentre Troia, in festa, portava in trionfo il suo nuovo eroe.

FINE





Oggi ho scelto di proporre a chi viene qui, casualmente o no, il mio "L'ombrellone spento".
Questo racconto, vagamente e molto modestamente ispirato al tipo di scrittura di Marguerite Duras, è stato pubblicato dal quotidiano "Libertà" nell'estate del 2008 ed è inserito nell'Antologia dei Volatori Rapidi "L'ombrellone a tredici colori" (Edizioni LIR)


L’ombrellone spento


Sospesa, affacciata fino quasi a cadere, la Donna dalla terrazza guardava il mare.
Il lungomare era brulicante di persone, nonostante le prime frescure dell’autunno.
Solo quel piccolo angolo che lei aveva scelto, una piccola sporgenza della passeggiata, a picco sull’acqua, era deserto.
Il sole del primo pomeriggio, ancora alto, liberato da ogni coltre dal vento, si rifletteva in modo dirompente nell’acqua. L’energia che emanava da quell’istante era fortissima. Un milione di bagliori di luce, ad intermittenza, si accendevano e si spegnevano nella grande massa fluttuante.
Il mare era di un blu intenso, mentre il cielo era chiaro.
La Donna non aveva mai visto una tale dissonanza di colore tra acqua ed aria.
«Il colore del mare racconta il futuro,» le aveva detto una volta sua madre. «Porta il colore del giorno che verrà.».
«Come la fata Morgana conduce nel deserto l’immagine di oggetti lontani, distanti chilometri, il mare riflette il colore di luoghi lontani, come un gioco di specchi. »
«La mia mente è come il mare » sussurrò in modo impercettibile la Donna «Ha proprio il colore del giorno che verrà…»
Un brivido di tristezza la percorse tutta, come un presagio.
L’Uomo stava a qualche metro di distanza e la guardava con l’identica intensità con cui lei guardava l’acqua.
Senz’alcun dubbio, dal suo punto d’osservazione, era lei, non il mare, l’oggetto di metafore, di strani discernimenti, di lirismi. Di tutti quei procedimenti mentali che la Donna un tempo aveva tanto amato in lui.
Ma ora la Donna non lo stava guardando a sua volta. Era venuta meno la reciprocità.
Sentiva gli occhi dell’Uomo fissi sulla propria nuca, brucianti di preghiere non formulate, di richieste non espresse, ma continuava a guardare il mare e gli dava le spalle.
Un simbolismo che  alla sensibilità acuta di quello che per tanto tempo aveva considerato il Suo Uomo non sarebbe sfuggito.
Per la Donna il passato era alle sue spalle, davanti vi era la vastità dell’ignoto, scintillante di promesse, ma con tracce oscure che la inquietavano.
Il volo dei gabbiani descriveva in quel momento strane geometrie, linee ascendenti e discendenti. Con estrema naturalezza anche i nostri sentimenti si elevano verso qualunque cielo con lievità o impetuosità, ma spesso la stessa forza che li spinge verso quelle altezze li fa ricadere con l’impercettibile leggerezza di una piuma o con il fragore di un meteorite.
Così la Donna, con un’improvvisa luce nella mente, ebbe la percezione che l’amore per quell’essere che la fissava con tanto desiderio fosse entrato nell’eterno sistema di trasformazione dell’universo e diventato qualcosa di diverso.
La bellezza del luogo, il suono profondo e vivace di un sasso che un bambino aveva lanciato tra i flutti e questo pensiero le fecero scivolare una lacrima su una guancia.
«Quando guardo il mare credo all’esistenza di Dio» gli aveva detto voltandosi per un quarto verso di lui.
«Niente è più perfetto ed imperfetto nello stesso tempo, niente è più evidente e nello stesso tempo irriconoscibile nelle sue profondità. Niente è più cangiante ed immutabile, ma solo nella sua essenza, non nel suo continuo flusso».
Recitava una frase che lui le aveva dedicato per un anniversario, come egli faceva un tempo, quando riusciva a parlarle con l’anima e non solo con la voce.
L’Uomo sorrise.
«Anche quando facciamo l’amore credi nell’esistenza di Dio?» L’aveva cinta da dietro, sporgendosi anche lui fin quasi a farla cadere.
La Donna aveva sorriso, ma non aveva risposto.
«No», aveva pensato, guardandolo già con gli occhi tristi e nostalgici dell’addio.
Non più, almeno.
Ma non si era sottratta alla stretta.
Mentre sentiva le sue mani che le stringevano la vita si affacciò ancora di più, fin quasi a sfuggirgli.
Vide, lontanissimo, un ombrellone spento, sperduto in mezzo alla vastità della spiaggia.
Anche per lui era finita l’estate. Aspettava solo che lo portassero via. Inutile, ormai.
Chi teme il tiepido sole dell’autunno?
Chi ha bisogno di protezione quando non c’è più bisogno di protezione?
Un’altra lacrima le scese, senza che lui se ne accorgesse.
L’Uomo aveva lasciato la presa per accendersi una sigaretta e la Donna ebbe un sussulto temendo di cadere.
Ma non cadde.
Anzi, si sentì libera di sporgersi persino di più, e così facendo vide arrivare un bagnino che sradicò l’ombrellone e lo portò via…
«Ma tornerà l’estate e il sole scotterà ancora…», si disse.
Di nuovo sentì le mani dell’Uomo intorno alla sua vita…
La Sua Vita.
Improvvisamente ricordò le frasi di sua nonna… « Ma se stai sempre sotto l’ombrellone non ti abbronzerai mai! ».
L’uomo la strinse un po’ di più… « Ti proteggo io» disse.

§§§§§§§

La mamma e la nonna, quando era bambina, la portavano al mare, che distava pochi chilometri dalla loro casa.
Assieme al corredo da picnic si portavano dietro un ridicolo ombrellone, con il manico troppo corto, che appoggiavano sulla sabbia senza nemmeno piantarlo.
Una volta, in preda all’infantile incoscienza del pericolo, aveva danzato con l’ombrellone in mano in mare, sotto la pioggia, come una piccola figlia di Nettuno, poi l’aveva lanciato lontano e si era inzuppata di acqua e di sale.
Libera come il mare in tempesta, una sensazione che non avrebbe più provato.
Forse.

§§§§§§§

Sulla spiaggia una famiglia si era sistemata proprio dove prima svettava l’ombrellone spento, e aveva steso dei teli per godere del pallido sole di quell’ora e di quella stagione.
Disse al suo Uomo «Ci sono dei periodi in cui si sta meglio senza ombrellone» e Lui annuì, senza comprendere il significato profondo delle parole della sua Donna.
Era tanto tempo che non comprendeva più nulla. O che lei non voleva che lui comprendesse più Nulla.
Avevano aspettato in silenzio che il sole terminasse la sua lenta parabola verso l’orizzonte.
Prima che il sole, ormai rosso fuoco, si inzuppasse completamente nell’acqua, la Donna si liberò dall’abbraccio. «Andiamo?» disse.
«Perché? Perché adesso?» Le parole dell’Uomo ora avevano l’insistenza di una supplica, come se ad un tratto la verità lo avesse avvolto con la sua dura malinconia, e che, proprio per questo, non riuscisse ad accettarla.
«Perché non sopporto gli addii» rispose la Donna, separandosi dalla terrazza, dalle sue braccia.
«Come vuoi tu» aveva risposto.
E si era lentamente mosso, dando un’ultima occhiata al sole morente e alla Donna.
Si inginocchiò per allacciarsi una scarpa.
«Tutto si scioglie, tutto si ricompone» gli disse la Donna sorridendogli appena, mentre lui prendeva tra le mani i due lacci, prima di volgergli le spalle.
Le nuvole scarlatte plasmate dal vento stavano ancora cambiando forma.
L’Uomo, improvvisamente, sentì lo stesso desiderio di andarsene e dopo aver stretto il nodo si alzò, sollevato, mandandole un bacio sfiorando appena le labbra con le dita.
Ma lei ormai non poteva più vederlo, così lui rimase fermo, immobile in quel gesto come una statua, come in uno di quei sogni strani che la Donna prima gli raccontava.
Tutto si ricompone, domani ci sarebbe stata un’altra alba, di certo un’altra estate e chissà… si disse.
Si allontanò a passo spedito, mentre le brume del crepuscolo lo avvolgevano lentamente.









Ho deciso di postare un racconto alla settimana. Ecco quello della seconda settimana di novembre.
A dire il vero però sono due.  Sono dello stesso progetto di romanzo. Il primo è stato pubblicato dal quotidiano Libertà nell'estate del 2009.
Prima o poi lo scriverò questo romanzo. Credo prima. Sarebbe ora. 


Ci 6?





Haima  si ricollegò .
Era caduta, in gergo. Uno sbalzo di corrente, un problema al programma e ci si trova disconnessi dalla Rete. Una liberazione o una tragedia. A seconda dei momenti.
Ecco la chat… Stavolta cliccò solo su un nome, un nome a caso. Un nome di uomo.
Picchiettava i tasti della tastiera del computer compulsivamente.
Scriveva ad una persona qualunque.
Una persona conosciuta quattro minuti prima a cui come sempre aveva voglia di raccontare la sua vita.
Finì la frase, mise uno smile e schiacciò invio. Le sue parole comparvero davanti allo schermo della chat.
Il solito interlocutore leggermente più giovane di lei le scrisse che era molto interessante e stimolante, Haima digitò per l’ennesima volta uno smile e ringraziò ricambiando il complimento.
Di dove sei? Il sei scritto con il numero 6.
Emilia Romagna, digitò ancora Haima. Torino, le comparve sul computer.
Never - Cosa fai nella vita?
Haima – Impiegata -  scrisse. Aspettò: Never rispose : - Anch’io.
Infilò un CD nel computer e la solennità del Tannhauser riempì la piccola stanza.
Parole piccole, parole stupide…
Never - Come 6? Io castano chiaro occhi verdi 1.82… 
Haima cominciò a seguire il ritmo sacrale della melodia di Wagner, percorrendo cerchi concentrici con il mouse sulla scrivania.
La freccia descriveva ora strane figure sullo schermo…mentre compariva di seguito:
Never – Haima  6 sparita?
Never – Haima non 6 + collegata? 
La freccia raggiunse la x della finestra del programma. Click. La chiuse.
Never avrebbe scritto ancora qualche 6, qualche xché per due o tre minuti…poi si sarebbe collegato con  Soleluna o Java, con  un nome qualunque trovato nella lista della chat… 
Chiuse gli occhi, trasportata da quella musica, innalzata dal genio di un Altro ad una condizione di momentanea superiorità sugli altri.
Ma perché proprio lei, con la sua cultura, la sua storia, le sue passioni, perché era lì a chattare, come una ragazzina sciocca… Ma Chi è che conosce in fondo il popolo della chat? E la sua disperazione?
Haima riaprì gli occhi e si alzò dalla scrivania. Si guardò allo specchio e vide una sconosciuta dagli occhi pesti.
Si prese la testa tra le mani, quasi a soppesarla.
Cercava i pensieri, le emozioni, cercava dentro il bianco dei suoi occhi, dentro il nero delle pupille la voce dentro, una voce che non sentiva ,che forse non aveva mai sentito.
Si spogliò completamente e guardò con altrettanta curiosità il suo corpo. Quel corpo che nessuno al di là del suo schermo avrebbe potuto realmente toccare. Aveva bisogno di sentire il suo corpo. Corpo vero, non virtuale.
Tutte le donne sono uguali, si disse.
Sorvolò sugli attributi sessuali, uguali, irrimediabilmente  uguali, si disse, per tutte.
Quegli stessi che sera per sera le scorrevano sullo schermo mentre faceva sesso su Internet. Virtuale, o effettivo, chissà.
Una volta aveva fatto l’amore, nella vita reale – come dicono tutti gli avatar - con un uomo conosciuto su Internet  e di cui non ricordava a momenti neanche l’aspetto.
Si erano incontrati nel bar di una città vicina.
Ricordava i suoi gesti, il contatto con il suo corpo sconosciuto, lo toccava ma era come se fosse stata da sola.
E poi…accidenti. Il meccanicismo del corpo è sorprendente.
Un bacio non avrebbe portato a quella situazione di non ritorno. Dieci baci sì.
Si era quasi sentita costretta, in quella macchina, a rendersi conto dell’inevitabilità della situazione.
Sorrise amaramente al pensiero. Fare l’amore con qualcuno per scusarsi di averlo portato ad uno stato di estrema eccitazione, quando lei aveva bisogno solo di un bacio.
Dopo si era sentita sporca per mesi e non aveva più voluto rivederlo. E nemmeno più incontrarlo tra i bit del computer. Aveva fatto click e lo aveva messo nel cestino.
Haima camminava avanti e indietro davanti allo specchio.
Si sentiva indifesa e troppo vera, troppo reale per potersi affrontare. La pelle cominciava a incresparsi per la tensione nervosa.
Si accovacciò e iniziò a tremare. Il pendolo suonava l’una di notte e Haima si sentiva disperatamente sola. Era ferragosto e tremava. Un freddo virtuale anch’esso.
La notte le avvolgeva l’anima come un labirinto in cui non riusciva a trovare libera uscita.
In televisione una maga, privata dell’audio, mescolava le carte.
La musica di Wagner strideva con i capelli giallo canarino, con le mani nodose della cartomante.
Il bello e il brutto, il solenne e il futile abbinati ci creano sempre un’inquietudine, un’improvvisa percezione della varietà, della diversità, delle infinite scelte a cui siamo sottoposti ogni giorno.
Haima nuda si affacciò alla finestra. Forse il vicino di fronte l’avrebbe vista e avrebbe fatto pettegolezzi per una settimana, ma non gliene importava. D’altronde il caldo ferragostano l’attanagliava con la sua umida e rovente inesorabilità.
Oscillò appoggiandosi al parapetto. Ecco. E se si fosse gettata? Quinto piano. Sicuramente sarebbe morta. Il lavoro di nove mesi di sua madre, i suoi diciotto anni di studio, il suo intervento per correggere la miopia, persino l’otturazione al dente fatta una settimana prima… tutto bruciato nel giro di quattro, cinque secondi al massimo.
Sentì un vago senso di eccitazione e di onnipotenza. Poteva farlo. Aveva in sé il potere della distruzione. Poteva agire sulla realtà.
Poi il vicino avrebbe raccontato tutto. Il fatto di averla vista nuda alla finestra avrebbe avuto ben altra valenza, sarebbe stato uno strano cerimoniale di morte. Avrebbero trovato il suo corpo scomposto sull’ asfalto e non avrebbero potuto fare a meno di guardarlo in modo morboso e magari di ammirarlo.
Il giornale avrebbe cercato furiosamente in ogni spiraglio della sua vita per trovare un perché. Sarebbero nati dibattiti, avrebbero consultato psicologi e sociologi. Avrebbero anche litigato per accreditare le loro tesi. Il sacerdote incaricato dell’uffizio avrebbe invocato la pietà per la sua anima e si sarebbe rifugiato nel mistero di Dio.
Le apparve la figura di sua madre dolente, morente per il crepacuore e, come colpita da una scarica elettrica, si raddrizzò e si allontanò dalla finestra stringendo gli occhi e gemendo dal dolore.
Scherzi della notte, della notte di ferragosto. 
Quando tutti festeggiano al mare sotto gli ombrelloni o in montagna, con stelle filanti, gavettoni e fuochi d’artificio. 
E solo pochi stupidi passano le ore davanti ad un freddo schermo. Freddo da brividi.
I complici della notte, i detenuti di una vita  non vissuta.
Ma era solo una notte in fondo, come tante altre.
Riaccese il computer. Dopo un minuto ricomparve Never :- Ci 6?
Never – Ci 6 , ho visto, ci 6…
Haima – Sono tornata
-Perché non mi vuoi dire il tuo vero nome?
-Il mio vero nome. Che te ne fai del mio vero nome… Potrei scriverti Teresa o Sara o Barbara. Cosa cambierebbe per te? Ti mentirei e tu avresti una bambola mentale con cui divertirti e magari eccitarti
-Sei complicata Haima. Volevo solo esserti amico. Tutto qui. Io mi chiamo Ivan. Ti giuro che mi chiamo Ivan.
-No, qui sei Never. Sei solo un bit che vaga nel mio computer, come io vago nel tuo. Dopo che avremo spento lo schermo non rimarrà nulla né di me, né di te. Semplicemente non esistiamo. Siamo intrappolati qui.
- Ti ha fatto molto soffrire vero?
- Di chi parli?
- Della persona che ti ha ridotto in questo stato. Un uomo, un uomo che ti ha lasciato.
- ………………………..
-     Haima, non ti leggo.
- Haima, ci sei
- Nn ti leggo
- ……………………….
- Scusa Never, era caduta la linea
- No, Haima, eri caduta tu… Allora è vero, ti ha lasciata
- Sai, è complicato. Mi amava molto, troppo. Mi ha lasciato proprio per questo, perché l’amore che nutriva per me lo allontanava dal lavoro, dai suoi studi, dalla vita, insomma. Ma sto semplificando troppo.
- Chi ama non lascia, non abbandona, non fa soffrire.
- Non lo so. Non so più niente ormai.
- Ma tu lo amavi?
- ……………….
- Lo ami?
- Non lo so. Forse, probabilmente. L’ho fatto scappare con i miei avverbi dubitativi.
- Avverbi dubitativi… parli difficile Haima. Perché non dici solo che non l’amavi. Altrimenti saresti riuscita a dirglielo.
-     Chissà, forse hai ragione
- Che mestiere fa? 
-     ……………….
- Sei misteriosa, non mi rispondi. Sai che anch’io sono stato appena lasciato. La mia ragazza mi tradiva da tempo con un suo collega di lavoro. Stavamo assieme da tre anni.
- Mi spiace
- Figurati a me….
- …………………..
- …………………..
Haima spense di nuovo il PC. Per l’ennesima volta aveva incontrato il solito individuo comune, Banale, troppo banale.
Il “Templare” non sarebbe mai stato banale. Avrebbe arricchito anche uno scarno periodo di parole evocative, di un lusso intellettuale e stilistico che l’avrebbe lusingata, attratta irresistibilmente.
Emise un gemito sordo. 
La prima volta che avevano chattato le aveva parlato di Bertrand Russell, di Brecht, del rock sperimentale statunitense tra il 1967 e il 1971.
Era stato come affacciarsi su un improvviso dirupo che nasconde agli occhi della gente dei tesori inestimabili.
- Ma conosci davvero tutti  i dischi dei Dire Straits?
- Beh, non ne hanno pubblicati poi tanti. 
- Dimmi la tua canzone preferita
- Down to the waterline e l’assolo di chitarra di Sultans of swing.
E poi si erano incontrati, piaciuti, frequentati…avevano fatto sesso, avevano discusso, capito le loro grandi problematicità e si erano lasciati. Anche perché uno abitava a Bari e l’altra nel profondo nord. 
Il solito iter di Internet. 
Per questo ora voleva solo amare da lontano. Provare un piacere che non fa male, una rosa senza spine. 

Never – Cosa avresti voglia di fare stasera?
Haima – Non ne hai nemmeno idea, Never…
Never – Scommettiamo di sì…. Come sei vestita…? Sei vestita, vero?
Haima – No… 


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CORPO 





----Messaggio originale----
Data: 10/12/2012 01.05
A: haima@libero.it
Ogg: R: Riconoscimento


Cara Haima,
io non voglio che cerchi te stessa in me.
Io non ho niente da offrirti. Niente scorciatoie e niente alibi, io ti offro l’opportunità di essere te stessa e di non indossare nessuna maschera.

Ti sto offrendo di riconoscerti per quello che sei: io ti riconosco per quello che sei.
Ti offro te stessa perché sono pronto – come dovrebbe essere pronto chiunque in un rapporto adulto, non in quelle pantomime che hai vissuto – ad accogliere in me ogni tuo aspetto, a comprenderlo, ad accettarlo. Tu guarderai i miei occhi e non vedrai l’ombra riflessa di ciò che non mi hai detto, perché non avrai paura di dirmi ciò che pensi, di raccontarmi le tue paure. Non dovrai temere il mio giudizio, non dovrai temere di essere abbandonata se mi dirai tutto di te: al contrario.

Tu hai paura di farti amare, tu rifiuti di farti amare.
Pensi che l’amore sia frustrazione, negazione, lontananza, abbandono, privazione, assenza del corpo. Amare è qualcosa che si fa soprattutto con il corpo, perché per amare bisogna essere presenti: la vicinanza, l’essere qui adesso,.
Il corpo, Haima!! Essere presenti con il corpo, una carezza, l’alito, il calore di un corpo vivo: da quando ti è successo quello che ti è successo la tua capacità di amare è stata troncata.

Per questo ti stai lasciando vivere, perché temi di soffrire ancora; per questo stenti ad avere ricordi, perché il ricordo ti fa paura.
Per questo non sei capace di amare e continui a chiedere aiuto a persone senza corpo.

Come me.

F.B.


Da:haima@libero.it
Data: 10/12/2012 01.35
A::f.b@yahoo.it
Ogg:R: R: Riconoscimento





Caro F.B.
desidero ringraziarti perché nessuno prima d’ora mi aveva fatto una simile offerta.
Vuoi che sia me stessa con te, senza nessuna maschera, solo, caro F.B. che  la maschera era il mio regalo per te, per non turbare i tuoi occhi, per non immalinconire la tua anima.
Sei sicuro, sei veramente sicuro di essere in grado di sopportare la mia vista?
Quanti aspiranti medici si sono dovuti arrendere all’evidenza di non essere in grado di sezionare un cadavere o persino di vedere il sangue.

Tu non hai idea, non hai proprio idea di cosa si nasconda dentro di me.
Come posso essere certa che non scapperai come gli altri al primo sospetto che non fossi come loro volevano, come loro credevano.
E come potrei non essere giudicata da te. Nessuno è indenne dal avere un’opinione, mi meraviglierei che questo non succedesse a te.

Ma non è per paura che non mi rivelo a te così come sono.
Niente è così com’è. Tutto ha bisogno di un rivestimento, di una carta da regalo.
Ameresti il ventre piatto di una donna se vedessi invece della sua pelle l’intricato annodarsi dei suoi intestini? E non l’ apprezzi di più quando si fa bella per te, arricciandosi i capelli, vestendo un abito seducente, indossando il suo sorriso più bello?

No, caro F.B. , non rifiutare il mio dono, non rifiutare la maschera che con tanta cura ho costruito per te.

Sì, sono attratta dal vuoto, perché posso riempirlo delle mie fantasie e, in definitiva, di me stessa.
Il pieno mi spaventa, mi toglie spazio, temo che tolga anche la mia anima.
E poi non ci sono abituata. Ho sempre vissuto in mezzo alle assenze, alle promesse mancate, ai coperti vuoti nella tavola.
Tutta la mia vita è stata un dialogo con il vuoto.
E' per questo che dialogo con persone senza corpo,
come te

Haima


Colonna sonora: Ouverture del Tannheuser (Richard Wagner), esecuzione di Arturo Toscanini
.




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Archivio: 3 novembre 2012

Da oggi ho deciso di aggiornare il mio blog ogni  settimana con uno dei miei racconti, alternandoli.


Ecco il primo racconto che vi propongo, pubblicato il 2 novembre 2012 da Libertà in occasione del dibattito sull'unione delle province di Parma e Piacenza, decisione governativa che ristabilisce l'antica struttura del omonimo  Ducato Farnesiano.

Il racconto è stato tra i premiati del concorso “L’autobus del Tempo” nel 2008 con il patrocinio della Provincia di Piacenza. Quando è stato scritto esistevano ancora sia la squadra di calcio, che la Provincia di Piacenza.


Con l’augurio che l’una risorga e che l’altra non svanisca.)



Sventato omicidio




“Parma batte Piacenza 1 a 0. Il derby del Ducato, edizione 2008, va ancora alla squadra della sua capitale”
- Ma lassa lé!-
Emilio spense la radio del suo autobus di linea.
Lui ce l’aveva a morte con il Parma.
Nella partita di ritorno avrebbe esposto uno di quegli striscioni che a quei fetenti sarebbe venuto male.
Lui ce l’aveva a morte con Parma.
“A Parma c’è più vita, Parma è diventata la capitale europea dell’alimentazione e piantatela col dire che Verdi è piacentino che in tutto il mondo sanno che è di Parma!”
Ma c’era di più. Quello che gli aveva portato via la Claudia, a due mesi dal matrimonio, era di Parma.
Riaccese la radio:
“Oggi 10 settembre è’ in corso a Ginevra un esperimento che riprodurrà il big bang e creerà un buco nero artificiale. Non temete, non ci sarà la fine del mondo né disturbi dello spazio tempo anche se…”
Interessante, commentò l’autista.
A lui piaceva tenersi informato, cosa credeva la Claudia.
Per esempio quella storia del Ducato e della capitale.
Era la storia di Pier Luigi Farnese. Il figlio del Papa.
Roba del 1500, all’incirca. Pier Luigi era venuto a stare a Piacenza, che allora era la capitale del Ducato.
Poi i piacentini, che si sa che sono diffidenti con chi viene da fuori, un bel giorno l’avevano accoppato e i Farnese avevano fatto le valigie e se ne erano andati a Parma.
E da qui le scarogne dei piacentini e l’insuperbirsi dei parmigiani.

Stava concludendo la sua corsa alla stazione delle corriere di Piazza Cittadella.
Scese dal suo mezzo ormai deserto e si stupì che non ci fosse nessun altro autobus fermo nel parcheggio.
Ma non c’era nemmeno più la stazione, né i palazzi vicini.
Né il Palazzo Farnese!
Si girò e non vide più nemmeno il suo n° 15!
Sparito anch’esso.
In compenso una carrozza trainata da due splendidi cavalli lo investì, facendolo cadere a terra. Prima che sparisse in uno strano edificio che assomigliava a una fortezza, fece in tempo a vedere al suo interno un uomo barbuto, vestito come in un quadro antico. 

Emilio era uno che non si stupiva di niente.
Da quando poi la Claudia gli era scappata via ancora meno.
L’esperimento sul big bang, i viaggi nel tempo… Oddìo, vuoi vedere?
Si alzò dolorante e si guardò attorno.
Una vecchia si fermò e, sbarrando gli occhi davanti alla sua divisa da autista, si mise a urlare: – Stregoneria, stregoneria!-
-Taci brutta megera e dimmi dove mi trovo e quando!-
-Anno del Signore 1547, 10 settembre. E questa è la dimora dell’eccellentissimo Duca Pier Luigi Farnese. E’ passato prima in carrozza– biascicò tremante.
Pier Luigi! Proprio lui! Ne stava parlando proprio prima mentre… l’esperimento!Il buco nello spazio tempo!
Ma che importava, aveva una missione ora da portare avanti!
Fu così che Emilio l’autista di Tempi si recò da Pier Luigi il Duca dei Farnese.
“Non deve morire, non deve morire!” – diceva stringendo i pugni.
Ripensò a Claudia e al marito parmigiano e accelerò il passo.
Bussò al portone della fortezza, quella stessa dove aveva visto scomparire la carrozza, e subito gli si radunò attorno la guardia: un branco di feroci soldati armati di alabarde.
-Cosa vuoi? –
-Voglio salvare il Duca Pier Luigi che rischia di essere ucciso –
Uno dei capi dei soldati sbiancò.
Dopo pochi secondi l’autista si ritrovò con una spada puntata alla gola: – E voi facevate parte della cospirazione! Aiuto! –
-Chi sei miserabile? Da chi mi vuoi salvare?- l’uomo della carrozza, che indossava un prezioso abito di velluto rosso, lo apostrofò con aria di scherno, mentre usciva dal palazzo.
- Duca- ansimò Emilio- io vengo dal futuro per dirti che oggi, se non stai all’erta, i nobili piacentini ti pugnaleranno a morte. Anche questi soldati sono contro di te! –
Una goccia di sangue sgorgò dal suo collo, mentre il capo della guardia urlava: – Uccideteli tutti e due!
Emilio si divincolò e spinse Pier Luigi dentro il palazzo.
Si barricarono assieme nel salone più interno.
Doveva essere un altro effetto dell’esperimento del buco nero se il Duca ascoltò e credette al suo racconto, ai congiurati, al suo viaggio dal futuro di cui lo convinse mostrandogli una foto che, manco a dirlo, era della Claudia prima che sposasse quello di Parma.
Il Duca mandò un piccione viaggiatore dalla torre della cittadella e, dato che non era meno efferato di chi lo voleva morto, fece arrivare un  battaglione fedele a suo padre Papa Paolo III che sterminò i suoi nemici. Altro che la scena di Ulisse che ammazza i proci… tutti i ribelli furono massacrati e Pier Luigi fu portato in trionfo.
 -Cosa vuoi –disse alla fine il Duca- per il tuo servigio?-
-Che Piacenza sia sempre la capitale del Ducato. A Parma costruiscici delle galere. E per me una grande carrozza: sono abituato a viaggiare comodo-

Il Duca gliela fece trovare proprio dove lui di solito parcheggiava l’autobus. Emilio vi salì tronfio e felice.
Mentre i cavalli partivano al galoppo una brusca frenata lo riportò alla realtà.
Era di nuovo sul suo autobus, il n° 15.
Quel diabolico esperimento…come per magia era tornato nel presente, allo stesso punto di prima.
Si guardò attorno: il Palazzo Farnese era raddoppiato, altre torri si affacciavano sulla piazza e uno splendido giardino sorgeva al posto del mercato coperto.
Al dito portava una fede con scritto “Emilio e Claudia”.
Dalla radio:”Piacenza batte Parma 2 a 1, si aggiudica il derby la città di Verdi, capitale del Ducato.”
Un sorriso irrefrenabile lo illuminò.
-Tiè!-

 GCP 



P.S. CURIOSITA’  STORICHE

Il 10 settembre 1497 il Duca  Pier Luigi Farnese fu ucciso a pugnalate da alcuni nobili piacentini. A seguito di questo avvenimento il figlio Ottavio spostò la sua residenza  da Piacenza, che era allora la città più importante del Ducato, a Parma  per sdebitarsi della fedeltà dei suoi cittadini dopo l’assassinio del padre.
 Lo stesso Ottavio decise di sospendere i lavori previsti  per il completamento di Palazzo Farnese a Piacenza.

Il 10 settembre 2008 è stato effettuato a Ginevra, a cura del CERN, L’Organizzazione Europea per la Ricerca Nucleare,  un  esperimento  per riprodurre il big bang e creare un buco nero.  Alcuni avevano predetto la fine del mondo e il verificarsi di inaspettati viaggi nel tempo. Qualcuno asserisce di essersi ritrovato per qualche ora in un’altra dimensione storica


3 commenti:

  1. Il passato è passato ed hai voglia a rimestarlo, a scompigliarlo, a tentare di modificarlo: resta sempre lì, uguale e irridente! Il futuro è finto ed esiste soltanto nella tua fantasia; il presente fa quasi schifo. Insomma?! Meglio scherzarci e ogni tanto prendersi qualche libertà di sfotterlo: il tempo, si intende!
    O.K.

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    1. Il passato incide, quanto incide sul presente! E, come nella legge dell'Entropia, è immutabile. Ma quanto sarebbe bello se invece si potesse farlo!
      Però si potrebbe già pensare di essere nel futuro... e di essere qui a modificare il passato a nostro vantaggio. Fare quello che faremmo se potessimo rimediare... Un po' contorto ma da una trottola contorta cosa ci si può aspettare ;))

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    2. La "cosa" sembra diventare seria, ma seria davvero. Il tempo, dunque! Il passato, il presente e il futuro formano un impasto così compatto e indivisibile che, al solo pensarci, si rimane sconvolti e si potrebbe ricorrere al famoso: "Fermati attimo! Sei bello!" Ma anche se l'attimo si fermasse che succederebbe? Vedi, siamo tutti trottole e figli di una trottola. E il tempo non è che una trottola. O.K.

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