Scriverlo per me è stato l'inizio di tutto. E' quello che ancora oggi mi ha dato più soddisfazioni e che qualche intrepida insegnante piacentina legge ogni tanto nelle scuole medie, parlando del mito di Odisseo ( grazie Laura Tacchinardi e Silvia Dallavalle).
Si intitola il Divoratore di Libri ed è ambientato nel mio luogo di lavoro, la Biblioteca Passerini-Landi di Piacenza.
IL DIVORATORE DI LIBRI
Tutte le
mattine, davanti alla Biblioteca “Passerini-Landi” di Piacenza, un uomo dai
movimenti nervosi aspettava con impazienza che si aprisse il portone.
Era sempre il primo ad entrare.
La sua figura
magra e allampanata era diventata ormai familiare ai bibliotecari, così come la
barba arruffata e gli occhi scuri ed enigmatici, che sembravano sempre rivolti
ad oggetti lontani dal momento e dal luogo presente.
Non prendeva
mai libri a prestito e non chiedeva mai indicazioni a nessuno.
Si limitava ad
aggirarsi per gli scaffali, a scegliere un libro e a sedersi ad un tavolo a
leggerlo. Per ore.
Anche i
frequentatori abituali della Biblioteca avevano imparato a conoscerlo.
Poteva avere
cinquant’ anni, ma anche meno. O anche di più.
Non aveva
rughe, ma lo sguardo cupo era quello di un uomo che aveva vissuto e visto
molto.
Quando si
metteva seduto si dedicava ad una sorta di liturgia, come un sacerdote che
celebra una messa.
Toglieva dalla
custodia gli occhiali da vista, tirava fuori da una tasca un fazzoletto
immacolato e puliva le lenti per alcuni minuti, controllandone ogni tanto la
trasparenza.
Riponeva la custodia e avvicinava la sedia al
tavolo.
Prendeva in
mano il libro e ne osservava prima il dorso, poi la copertina, poi con la mano
ne scorreva la superficie.
Finalmente
inforcava gli occhiali e apriva con cautela il libro, senza spalancarlo,
cominciando dalla prima pagina.
A questo punto
si estraniava completamente dal mondo, mentre i suoi occhi percorrevano le
righe a grande velocità e le mani nervose giravano vorticosamente le pagine.
Né la gioventù colorata e un po’ chiassosa che
popolava i corridoi della Biblioteca, né il via vai della folla dei consultatori dei giornali lo
distoglieva dal suo studio.
Se alzava gli
occhi era solo per rivolgerli verso l’alto come se volesse fissare in mente
qualche concetto particolarmente complesso.
All’ora di
pranzo si alzava e lasciava il libro sul tavolo e dopo una mezz’oretta tornava
al suo posto.
Riapriva il
testo e si immergeva di nuovo nella lettura, per poi dileguarsi dieci minuti
prima della chiusura.
Erano passati
diversi mesi da quando il misterioso utente aveva cominciato a frequentare la
Biblioteca e tutti i giorni, con il caldo e il freddo, il sole e la pioggia, la
neve e la nebbia, le bibliotecarie lo vedevano seduto sempre nella stessa
postazione, in fondo al corridoio.
Leggeva un
intero libro al giorno, e tutto lo scibile umano sembrava passare attraverso le
sue mani e i suoi occhi: Nietzsche, Ovidio, Joyce, Borges, ma anche Talete,
libretti di opera, studi sulla pittura di Bruegel, trattati di botanica e di
economia.
Era impossibile risalire alla sua professione
dai libri che lasciava sul tavolo.
Nessuno aveva
mai sentito la sua voce, tranne una volta in cui aveva pronunciato la parola
«Scusi» con una voce insolitamente giovane e profonda che aveva turbato una
giovane addetta di biblioteca, urtata inavvertitamente dall’uomo.
Per una
settimana aveva letto consecutivamente testi omerici. In italiano e in greco.
L’Odissea, tradotta da Pindemonte, rimase sul
suo tavolo due giorni consecutivi, accanto alla versione originale.
Sembrava che l’uomo ne controllasse addirittura
la traduzione.
Alla giovane bibliotecaria venne in mente che
lo strano tipo assomigliava un po’ a Bekim
Femiu, il protagonista dell’Odissea televisiva, così lei e le sue
colleghe, non conoscendo il suo nome, cominciarono a chiamarlo Odisseo.
*§*§*§*
Odisseo era
perfettamente conscio degli sguardi curiosi delle bibliotecarie e dei suoi
vicini di tavolo, ma non gliene
importava nulla. Anzi, beffardo, ogni tanto esasperava la sua stranezza,
allungando le braccia in alto o titillandosi il padiglione di un orecchio.
Erano passati i tempi in cui, conformista, vestiva giacca e cravatta e andava a
lavorare tutti i giorni.
Una giornata,
ventiquattr’ ore: dodici di lavoro, una di spostamenti, due di rapporti sociali
(madre, padre, fratelli, fidanzate, amici), una di igiene, una dedicata al
cibo, sei di sonno… una per varie ed eventuali.
Dieci anni
così. Di costrizione, asfissia, sensazione di limitatezza e di alienazione.
Dieci anni in
cui non era mai riuscito a trovare il tempo di leggere neanche un libro!
E pensare che
per lui leggere era sempre stata un’esigenza vitale, così divorante da sfiancargli le carni.
La sua mente
soffriva nell’inattività: i suoi meandri celebrali dovevano sempre essere
stimolati; il suo unico desiderio fin da bambino era stato quello di sapere
tutto.
Detestava l’idea di non essere informato su
qualsivoglia argomento.
Si sentiva umiliato al solo pensiero.
La sua fame di
conoscenza non si placava mai.
Novità, novità, novità … Perché vivere
altrimenti?
Da giovane era
stato un atleta, aveva mangiato e bevuto in modo pantagruelico nelle trattorie
e nei ristoranti di lusso, aveva soggiornato negli hotel più prestigiosi,
viaggiato, amato un’infinità di donne: bionde, brune, castane, giovani, mature,
morigerate, prostitute, persino un giovane compagno di studi.
Aveva
sperimentato tutto l’universo dei sensi.
Il corpo ormai
aveva già provato tutto quello che valeva provare. Avrebbe potuto anche
lasciarlo morire: la cosa lo avrebbe
lasciato perfettamente indifferente.
Come i rapporti
con gli uomini: non gli interessavano
più.
Negli ambienti
di lavoro sopportava a fatica la falsità, oppure quello zelo fastidioso che
nasconde il vuoto delle persone troppo semplici o troppo paurose.
Nei rapporti
familiari detestava l’opprimente senso del dovere, mascherato da amore o da
affetto, quel vago attaccamento alle persone che in un modo o nell’altro ci
servono e che fanno da contorno alla nostra vita.
E le donne… catalizzatrici di energia e
sentimenti all’inizio, poi inevitabilmente noiose con i loro corpi già
esplorati, così come le loro anime.
«Ma perché
cercare altrove quello che c’è in un libro…?» pensava.
« In Balzac, ad
esempio, c’è tutto! Non c’è nessun tipo umano, nessuna vicenda che io non possa
trovare in Balzac e nella sua Commedie Humaine! » diceva tra sé e sé,
osservando la pila di volumi dell’autore francese che aveva sul tavolo.
Disse una volta
Oscar Wilde che il più grande dolore della sua vita era stato la morte di
Lucien de Rubempré in “Splendori e
miserie delle cortigiane”.
E anche Odisseo, alle prese con lo stesso
passo, versava copiose lacrime sulle pagine, tra lo sconcerto dei frequentatori
della “Passerini-Landi”.
Il giorno dopo
si diede alla lettura di Céline, in francese…
Era così
assorto nella lettura che ad un tratto tutto sparì davanti a lui e si ritrovò a
peregrinare assieme a Bardamu, il protagonista di Viaggio al Termine della
Notte, per il mondo.
La sua concentrazione era altissima e sì, sì…
c’era riuscito!!.
Oramai pensava
con la testa di Céline, ed era tutt’uno con lui.
Sentiva il suo pessimismo e il suo disincanto
per il mondo, il suo sguardo ironico sulle persone
Era persino
riuscito ad impadronirsi del difficile linguaggio gergale dell’autore, l’Argot,
e a ragionare lui stesso in quello strano idioma. Dopo aver bisbigliato frasi
incomprensibili, scoppiò in un’amara risata, che suscitò un «Sttttt» di
riprovazione da parte di un ragazzo. Odisseo si riscosse infastidito,
fulminandolo con lo sguardo.
E pensare che ce l’aveva fatta.
Ecco il senso ultimo della lettura, si era
detto! Fondersi con il testo… come fondersi con l’universo!
Poi quel rumore
improvviso… e quelle parole che sentiva nel suo cervello erano diventate solo
segni sulla carta.
Lontane anni luce dal suo essere più profondo.
Riprovò il giorno
seguente con Dostoevskij arrivando a sentire “il piccolo male” del principe Myskin nell’”Idiota”, cadendo
bocconi sul tavolo, il volto riverso sul libro aperto.
Una
parola della solita bibliotecaria
preoccupata «Si sente bene?» lo
fece svegliare bruscamente. « Sì.» rispose con la sua voce oscuramente
magnetica, alzandosi e abbandonando immediatamente la sala di lettura.
Era la prima
volta in tanti mesi che Odisseo usciva prima dell’avviso di chiusura.
Il giorno
successivo non si presentò e la bibliotecaria non poteva fare a meno di spiare
il corridoio di ingresso alle sale di consultazione in attesa del suo arrivo.
Non si fece
vedere per una settimana.
Un pomeriggio
tornò.
Era ancora più
magro e aveva la faccia stravolta.
La
bibliotecaria accennò ad un sorriso, ma lui non sembrò nemmeno accorgersene.
Andò a
scegliersi un libro, come sempre, in uno scaffale, ma stavolta lo portò nel
salone storico della Biblioteca, quello chiamato Salone Monumentale.
Anche lì si
sentiva aggressivo, insofferente.
Il contatto gomito a gomito con gli altri lo
esasperava: i movimenti che intravedeva nel suo spettro visivo, i piccoli colpi
di tosse, l’odore acre di sudore di alcuni ragazzi, lo infastidivano al punto
tale che stava male fisicamente.
Ora che era
riuscito a vivere attraverso le parole, perdendo finalmente la sua fastidiosa
corporeità!
Ora che poteva
acquistare la suprema sapienza, la perfetta fusione con lo spirito dell’uomo,
non poteva avere distrazioni di nessun genere.
E detestando con tutte le sue forze le persone
vicine, al punto da desiderare quasi la loro morte, si dedicò al suo piano.
*§*§*§*
Nel mese
d’agosto la Biblioteca “Passerini-Landi” chiudeva tradizionalmente per due o
tre settimane.
La
bibliotecaria che aveva parlato con Odisseo era stata una delle ultime ad
uscire.
I maestosi
corridoi deserti irradiavano calore, i libri stessi, distribuiti nelle varie
sale, sembravano far caldo, come maglioni esposti in anteprima nelle boutique
in piena estate.
Il metronotte
inserì tutti gli allarmi sotto gli occhi della solerte impiegata, che inforco
la bicicletta e si diresse a casa.
Nella sala
conferenze dietro il Salone Monumentale, quella sempre chiusa al pubblico, una
figura nascosta dietro alle bacheche sospirava di gioia.
Aprì la porta a
vetri del salone, accese una potente torcia a pile e, con gli occhi lucenti,
ammirò gli imponenti scaffali di legno pregiato che perimetravano il Salone che
così deserto sembrava immenso ed era tutto suo! Suo!
Odisseo toccò,
attraverso le grate protettive, i consunti volumi del cinquecento e ne ebbe un
piacere quasi sensuale.
Si sdraiò sul
pavimento per contemplare questa immensa quantità di volumi, questi secoli di
sapere che ben presto avrebbe assimilato.
Uscì dal salone e disinnescò tutti gli
allarmi.
Nelle ultime settimane aveva spiato i
movimenti dei metronotte e memorizzato tutti i codici d’accesso.
Ora la
biblioteca e i suoi duecentomila libri erano suoi, suoi per tre settimane!
Non poteva accendere la luce perché
l’avrebbero intravista all’esterno, così era la torcia ad illuminare i suoi
passi.
Odisseo saliva
e scendeva dalle scale e, come un maniaco sessuale nel più grande postribolo
del mondo, andava a scegliere i libri più belli e preziosi, gli incunaboli più
rari.
Ormai la sua
lettura era divenuta rapidissima, gli occhi scorrevano le righe con la velocità
di un computer.
Non mangiava,
Odisseo.
Beveva solo acqua dai rubinetti dei bagni per
non disidratarsi.
A volte il
caldo torrido gli imperlava il corpo fino ad infradiciarlo.
Era stremato. Di notte dormiva per terra,
avendo per giaciglio i libri che avrebbe letto il giorno seguente e nel sonno
sognava vortici di parole che lo inghiottivano, pronunciate in lingue strane:
aramaico, sanscrito, egiziano.
Era stato ospite dei giardini di Semiramide,
aveva ascoltato un concerto di piano sul divano di Odette Swann ed era partito
da Macondo al seguito del colonnello Buendia!
Ormai era nel
delirio più assoluto: credeva che il semplice contatto con un libro avrebbe
trasfuso tutto il suo contenuto fin nel suo midollo e così toccava tutti i
volumi uno ad uno, arrampicandosi sulle scale, per raggiungere quelli più alti,
quelli più antichi.
Non avrebbe mai
potuto leggerli tutti in una vita, ma toccarli sì… Sfiorò un libro di preghiere
medioevali e in tutta la Biblioteca si diffuse come in filodiffusione un canto
gregoriano.
Guardò il suo
corpo sudato e scheletrico.
Ormai non
sopportava nemmeno più di ottemperare ai più evidenti bisogni fisici per non
sottrarre tempo alla lettura.
Persino bere un
goccio d’acqua da un lavandino significava perdere minuti preziosi per
dissetarsi alla fonte del sapere.
Aveva rinunciato anche a dormire… temeva che
qualcuno si sarebbe introdotto nel Palazzo per effettuare qualche controllo e
allora avrebbe dovuto interrompere la sua missione.
Dopo sette
giorni giaceva quasi esanime nella sala a scaffale aperto, la luce ormai
spenta, i morsi della fame che lo divoravano.
Trovò in tasca
un lussuoso accendino, ricordo dei tempi in cui si ubriacava, andava a donne,
fumava…e fece luce.
In preda alla fame si trascino verso uno
scaffale e afferrò un libro. Dapprima incerto sul da farsi, poi con ferocia, si
mise a strappare le pagine e a deglutirle, una ad una.
Dopo i primi bocconi cominciò ad avere la
consapevolezza di quello che stava facendo.
Nella sua
allucinazione immaginava di avvicinarsi ad un cibo sacro.
Il sapore era
acre e la durezza delle pagine gli graffiava l’esofago.
Quando finì il
suo pasto belluino, guardò il libro che aveva divorato: era l’Inferno Dantesco,
il prezioso volume illustrato da Doré.
A quella vista perse la testa e si senti
dannato, dannato per sempre.
Lo sfogliò
febbrilmente e vide che una parte si era salvata.
Solo un
canto. Il XXVI, Il canto di Ulisse.
Ulisse…Odisseo!
Il nome che
rimbalzava di bocca in bocca nei corridoi al suo passaggio e che ora gli
appariva nella sua tragica coincidenza.
Tutti i
tasselli cominciavano a quadrare.
L’universo
stava tessendo il suo destino. Forse stava per raggiungere davvero la fusione
totale tra vita e arte, tra vita e sapere.
“ Fatti non foste a viver come bruti, ma per
seguir virtute e canoscenza”…
Ma a rincorrere
il sapere si finiva nella dannazione, non era stato così fino ai tempi
dell’albero dell’Eden?
Un prezzo alto, ma non troppo alto da potervi
rinunciare.
Nell’illustrazione
di Doré Dante e Virgilio contemplavano attoniti le fiamme che avviluppavano i
peccatori del girone
Nel magazzino,
innescato dall’accendino che gli era caduto a terra, cominciò a divampare il
fuoco.
Tutti i sistemi
antincendio cominciarono a suonare e
Odisseo urlava come un ossesso, mentre le fiamme avvolgevano il suo corpo.
Aprì la
finestra leggendo le ultime parole del suo omonimo:
“Noi ci
allegrammo, e tosto tornò in pianto;
ché de la nova
terra un turbo nacque
e percosse del legno il primo canto.
Tre volte il fé
girar con tutte l’acque;
a la quarta
levar la poppa in suso
e la prora ire in giù, com’altrui piacque,
infin che ’l
mar fu sovra noi richiuso”
Poi si lanciò
nel vuoto.
Mentre
precipitava accadde il prodigio tanto atteso.
Odisseo si
sentì attirare irresistibilmente dal testo che stringeva tra le mani, mentre il
suo corpo cominciava a smaterializzarsi fino a scomparire del tutto.
Improvvisamente
tutto cambiò attorno a lui ed ebbe la certezza che le lingue di fuoco che lo
stavano divorando erano le stesse che stavano osservando il Divino Poeta e
Virgilio nel disegno di Doré.
Vedeva lo
sguardo pietoso del grande Alighieri, sentiva la presenza del compagno Diomede
accanto a lui.
Ora era
veramente Odisseo. Era entrato da protagonista nella più grande opera
dell’umanità: la sua missione poteva dirsi compiuta.
FINE
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La fine del mondo non c'è stata... e c'è chi è rimasto deluso!
Ecco il mio racconto "Mal comune mezzo gaudio" ispirato alla profezia Maya e pubblicato l'anno scorso dal quotidiano di Piacenza "Libertà"
MAL COMUNE MEZZO GAUDIO di Giusy Càfari Panìco
Una livida alba invernale stentava a risvegliare una Piacenza assonnata e nuvolosa. Tullio, in pigiama, si affacciò alla finestra senza vedere, come al solito, anima viva, poi si guardò allo specchio.
La notte insonne aveva lasciato sul suo volto due occhiaie bluastre e profonde; i radi capelli grigi, che di solito portava incollati sul cranio, erano tutti arruffati. Si allontanò con disgusto e, senza nemmeno pettinarsi e farsi la barba, si mise i soliti vestiti, che non cambiava da settimane, e uscì di casa.
Seduto sul solito autobus, guardava infastidito la vecchietta seduta davanti a lui, che continuava a ruminare rumorosamente una caramella. Un raggio di sole fece capolino dal finestrino. Tullio inforcò gli occhiali da sole, disturbato da quella luce accecante, e scese in Piazza Cittadella, per recarsi a fare la spesa al mercato coperto.
Nel reparto panetteria fu sommerso dal vociare assordante di alcuni ragazzi che compravano la focaccia per la ricreazione.
Colorati, chiassosi, impazienti, ridenti. In una parola: irritanti. Mentre aspettava il suo turno, ricordò che da giovane lui non faceva mai merenda, ai suoi tempi non usava!
Aspettò che sciamassero come vespe velenose, poi fece il suo solito acquisto; la commessa, ancora un po’ addormentata, gli infilò nel sacchetto tre panini, due confezioni di biscotti secchi e un pacco di tortiglioni.
A pochi metri dal mercato c’era la filiale della sua banca, quella dove riscuoteva la sua pensione. Pensò che qualcosa da parte per pagarsi il funerale ce l’aveva, senza bisogno di ricorrere a quei parenti lontani che non aveva mai sopportato.
Si sedette di nuovo sull’autobus, nello stesso posto. Stavolta il sole non c’era più: erano tornate le solite nuvole grigie, non si capiva mai se di smog o di vapore acqueo.
L’avrebbe fatto dopo pranzo. Magari stavolta avrebbe trovato più coraggio.
Gli svantaggi di abitare al pianoterra li aveva già calcolati al momento di prendere in affitto l’appartamento, ma l’inconveniente di non potersi buttare dalla finestra senza farsi il minimo graffio non l’aveva considerato. E farlo da un altro posto non gli andava. Voleva morire a casa sua. Almeno quello, dopo una vita così mediocre.
Stavolta pensò al gas. Aprì lo sportello del forno e girò la manopola senza accendere la fiamma. L’odore era fortissimo e prendeva lo stomaco, ma Tullio resisteva.
Al piano di sopra, il cane dei vicini continuava ad abbaiare, facendogli perdere la concentrazione. «Ma basta, cane maledetto»! ebbe la forza di urlare, persino in quel momento fatidico. Fastidioso, quel cane incontinente, che gli faceva la pipì sullo zerbino, fastidioso come tutti i suoi vicini con cui, grazie a Dio, parlava e litigava solo una volta all’anno, alla riunione di condominio.
Aumentò la gittata di gas, ma oltre a sentire il puzzo non succedeva niente.
«Va beh» disse tra sé e sé «facciamola per bene questa cosa.» Si sdraiò per terra, con la testa dentro il forno. Cominciò a sentire la testa pesante e fu colto da un tale senso di nausea che gli fece salire dallo stomaco alla bocca il pasto appena consumato. Non riuscì a trattenere un conato e si sfogò nel lavandino, poi socchiuse una finestra. Un colpo di vento, presago del temporale, la spalancò completamente e riempì la cucina di aria fresca.
Completamente demotivato, Tullio spense il gas e si impose di riprovarci il giorno successivo.
Ma era inutile: non aveva il coraggio! Aveva provato anche con la corda, ma il soffocamento gli faceva impressione e quella volta si era anche sbagliato a fare il nodo scorsoio, che lui mica era un boyscout!
I barbiturici… Buona idea! Ma in farmacia senza ricetta non glieli avrebbero mai dati e il medico non glieli aveva mai voluti prescrivere.
«Neanche stavolta!» sospirò tristemente. E aspettò che venisse buio per andarsene a letto.
Durante le notti, tutte insonni, di solito rimaneva sdraiato, in silenzio, a guardare il soffitto. Ma stavolta accese la radio su un’emittente a caso, tanto per dare un po’ di fastidio ai vicini che durante il giorno lo disturbavano con schiamazzi di bambini e strani spostamenti di mobili.
«Non lo dicono perché non possono ammettere che sia tutto vero, ma la Nasa lo sa perfettamente.» Una voce femminile traduceva in sincrono le parole di uno scienziato americano. «I Maya non hanno effettuato calcoli basandosi su riti religiosi, ma su scienze matematiche di cui erano maestri, confermate dai più illustri studiosi internazionali. Le avvisaglie si vedranno nel cielo. L’azzurro comincerà ad assumere sfumature verdognole, giorno dopo giorno, finché la mattina precedente il cielo sarà completamente verde … fino al tramonto.» «E l’umanità?» chiese l’intervistatore italiano. «Sterminata dall’impatto con un enorme asteroide» rispose la traduttrice, mentre lo scienziato pronunciava la stessa frase in inglese con voce tremante. «Ma questo è solo l’aspetto scientifico» interloquì un pastore sudamericano. «Si udrà fortissima la tromba dell’Arcangelo Gabriele: la sentiranno tutti e sarà l’inizio della fine…»
Il segnale si interruppe improvvisamente. Tullio prese in mano la vecchia radiolina a transistor e cercò spasmodicamente di sintonizzare meglio il canale. Niente. Quella strana emittente sembrava scomparsa .
«E se fosse vero? » si chiese speranzoso.
Dalla stanza accanto si sentivano i gemiti di due giovani amanti. «Godete godete: tanto ne avrete per poco» urlò sorridendo beffardamente.
Da quel momento la fine del mondo diventò per lui una vera e propria ossessione. Comprò tutti i testi apocalittici che trattavano dell’anno 2012, e tutte le notti studiava le profezie di Nostradamus cercando di trovare in ogni terzina un nuovo significato; l’Apocalisse di San Giovanni, poi, non aveva più alcun segreto per lui. A furia di documentarsi si era convinto: il momento era arrivato. Finalmente.
Era talmente certo di questa notizia che non aveva più tentato di farla finita da solo. Dal panettiere lasciava passare avanti i ragazzi vocianti senza più brontolare, tanto poi non avrebbero più rotto le scatole né a lui né agli altri. Anzi, una volta aveva persino detto loro «Prego prego…» ridacchiando.
Le persone che lo incontravano per strada, che lo avevano spesso additato per la sua stranezza e per il suo abbigliamento scuro e trasandato, non potevano fare a meno di notare sul suo volto rugoso un insolito sorriso, quasi beffardo, senza capirne il motivo.
Passarono mesi di trepidante e speranzosa attesa, finché arrivò il tanto sospirato 20 dicembre 2012.
Tullio era in gran forma. Dalla settimana precedente su tutti i telegiornali e su internet circolavano voci sull’effettivo passaggio dell’asteroide vicino alla terra. La Nasa aveva rassicurato l’opinione pubblica: dalla stazione spaziale internazionale si stava provvedendo in merito, non c’era nessun pericolo. Il presidente della Repubblica aveva rassicurato gli italiani, a reti unificate: «Non siamo più nell’anno mille!» aveva ammonito con solennità. «Invece di occuparsi di queste superstizioni occorre risolvere i problemi reali del paese: la disoccupazione, l’immondizia di Napoli, il PIL!»
Lo dicevano per evitare il caos, pensava Tullio. Proprio come avevano avvisato alla radio quella notte. Nel frattempo le notizie della caduta dell’asteroide, minimizzate dalla televisione e dai giornali, si stavano diffondendo a macchia d’olio su internet e per le strade.
All’alba del giorno successivo, Piacenza era meno sonnacchiosa del solito. Tutti sembravano essere usciti di casa in anticipo, per vedere che aria tirava. Il cielo era di uno strano colore: verde, nonostante lo smog cittadino, nonostante le nuvole.
Tullio non riuscì a trattenere un urlo di gioia: «Sììì!». Finalmente qualcosa che avrebbe scosso la noia dei suoi giorni, finalmente anche gli altri avrebbero provato il suo malessere di vita, finalmente sarebbe riuscito nel suo intento.
Andò a far la spesa con un sorriso smagliante. Si accorse che la panettiera, allungandogli il sacchetto, aveva la faccia terrorizzata, probabilmente aveva ascoltato da poco il telegiornale.
«Ma lei non è preoccupato?» gli chiese. «Io?» e Tullio dopo una lunga pausa rispose: «Mai stato più felice in vita mia!»
Tornò a casa e guardò soddisfatto quel verde che preannunciava l’apocalisse e che sovrastava Piacenza da giorni. Che importava se gli altri davano la colpa all’inceneritore. Lui sapeva.
Alle ventitré in punto si mise il pigiama per andare a letto, come al solito. Indossò quello più bello, per l’occasione.
Il condominio era stranamente silenzioso, come se la paura, che nell’ultima settimana si era diffusa ovunque, avesse tolto la voce anche ai bambini e ai cani.
Con una pace mai provata, Tullio appoggiò la testa sul cuscino e, prima di addormentarsi, con una risatina sulle labbra, sussurrò: «Mal comune mezzo gaudio!», poi si abbandonò dolcemente, per la prima volta dopo anni, tra le braccia di Morfeo.
Dopo aver dormito saporitamente per ore, Tullio si svegliò e, al buio, non poteva capire che ora fosse. Era ancora vivo, purtroppo. Sbuffò.
Ma magari per poco. Rimase in attesa, incerto se riaddormentarsi di nuovo o aspettare che il destino facesse il suo corso, cogliendolo magari nel sonno. Splendida fine! Meglio del nodo scorsoio che non gli riusciva mai.
Un prolungato squillo di tromba lo fece sussultare. Poi un altro. E un altro ancora. Fino a diventare dieci, quindici, venti o forse più. Tanto da costringerlo a tapparsi le orecchie.
L’arcangelo Gabriele, si disse!! Erano strani suoni, però: meno solenni di quello che si aspettava. «Si è ben modernizzato» pensò. Prima di aprire gli scuri delle finestre che davano sulla strada, se lo immaginò lì fuori, con le ali immense, pronto a dare il via al Giudizio Universale, attorniato dalla sua divisione angelica. «Pepperepeeeee!»
Spalancò la finestra e, accecato da un sole vivo, rimase senza fiato.
Centinaia di macchine facevano i caroselli per tutta la città, con le trombette dello stadio e con i clacson. Un grande urlo liberatorio echeggiava da tutte le parti. I festeggiamenti per i mondiali di calcio non erano stati nulla al confronto: tutti erano scesi in strada, e si abbracciavano gli uni con gli altri. I padri portavano i bambini sulle spalle, le donne urlavano di gioia, i ragazzi gridavano «Chi non salta Maya è!».
Sconcertato e deluso, Tullio chiuse la finestra e accese il televisore.
Su tutti i canali, in mondovisione, Barack Obama, il presidente degli Stati Uniti, spiegava in diretta i dettagli della missione più segreta e difficile della storia : la deviazione della traiettoria dell’asteroide che avrebbe potuto distruggere la Terra.
«Ringrazio tutte le nazioni del mondo, che hanno fornito uomini, idee, basi logistiche: dalla Russia alla Cina, dall’Unione Europea al Giappone. Sì, ce l’abbiamo fatta! E’ una vittoria del mondo, una vittoria dell’umanità!»
«Ma va a….» Tullio si vestì e fece colazione, poi scese sulla strada e si diresse alla fermata dell’ autobus.
Circondato dalla folla, camminava a fatica e dovette persino dare qualche spintone. Un ragazzo di quelli che andavano a comprare la focaccia lo riconobbe, lo abbracciò e gli diede una pacca sulle spalle, urlandogli felice: «Ce l’abbiamo fatta, siamo vivi! Vivi! ».
Tullio gli rispose mestamente «Sì, sì…» camminando a capo chino tra la folla festante. E mentre aspettava l’autobus, sospirò con aria rassegnata: «Neanche stavolta!».
FINE
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10 dicembre 2012
E' arrivata la neve. E per me è già Natale.
Eccovi il mio regalino per voi, la mia favola di Natale e l'illustrazione realizzata appositamente per questo racconto da Valentina Magnaschi. Buone Feste!
L’ONESTO NATALE DI UN LADRO (GCP)
“Aspetti, aspetti!”
Un’anziana donna, carica di sacchetti della spesa,
rincorreva un autobus che stava ripartendo dalla fermata. L’autista riaprì le
portiere e le permise di salire. La signora, con il fiatone, trovò a malapena un
posto a sedere. Alle sue spalle Giorgio, in piedi e senza biglietto, si guardava
attorno furtivamente, pronto a scendere se fosse arrivato il controllore.
Era passato molto tempo da quando aveva preso un
autobus, forse dai tempi della scuola. In fabbrica avevano avviato la
riqualificazione funzionale e gli avevano dimezzato le ore di lavoro. Era stato
costretto a vendere la macchina. Di solito andava in bicicletta, ma con quella
neve non gli sembrava proprio il caso.
La signora con i sacchetti guardava fuori dal
finestrino una Piacenza che, nonostante il disagio, le sembrava più bella e luminosa, quasi magica.
Nelle strade imbiancate le grandi ruote del mezzo
tracciavano binari scuri e profondi che impavidi pedoni utilizzavano come sentieri. Si ritenne
fortunata di essere riuscita a salire sul pullman.
Giorgio vide che da una delle borse di plastica
sbucava un vasetto di mostarda che la signora avrebbe sicuramente aperto per Natale.
“Ma Natale è domani! Mannaggia!” si diede una
manata sulla testa: doveva ancora comprare i regali per Giada e Lorenzo.
Un’adolescente e un bambino non ci mettono molto a
provare disprezzo per un padre che vedono poco e che per di più non mantiene le
promesse.
“La prossima volta vi porto il regalo di Natale”,
aveva esclamato sull’uscio della casa dell’ex moglie, sotto il loro sguardo
dubbioso.
“Sarebbe già tanto che ti ricordassi di mandare
l’assegno tutti i mesi” e la donna gli aveva chiuso la porta in faccia.
Un motorino, che arrancava tra i cumuli di neve, si
rovesciò e il pullman per non investirlo fece una brusca frenata. Da uno dei
sacchetti dell’anziana scivolò fuori il vasetto di mostarda che Giorgio si
chinò a raccogliere e prontamente restituì.
Anche la borsetta era scivolata per terra ed era mezza aperta. Un pensiero
gli balenò in testa. Perché no? Aveva
bisogno di denaro e forse dentro c’era la pensione della vecchia.
Gli sembrava di avere tutti gli sguardi puntati
addosso, ma nessuno faceva caso a lui. Chi parlava al telefonino, chi si
lamentava per la frenata di prima, alcuni ragazzini ascoltavano l’i-pod.
Finse di allacciarsi le scarpe e, con una mossa
fulminea, aprì completamente la borsa, afferrò il borsellino e se lo mise in
tasca.
“Ho perso la borsetta, povera me!” gridò la
vecchietta, che si accingeva a scendere e un giovane, scorgendola a terra, la
raccolse e gliela porse, mentre le portiere si aprivano alla fermata di Piazza
Borgo. “Grazie, grazie!”
Giorgio scese in Piazza Cavalli, con le mani
affondate nelle tasche del piumino grigio, l’ultimo dono di sua madre prima che
morisse. Faceva freddo, tanto freddo.
Le bancarelle del mercatino di Natale, nonostante
la neve, erano state allestite ugualmente
per vendere gli ultimi regali ai ritardatari.
Giorgio aprì il borsellino nero, di foggia antica,
con l’apertura a scatto, e vi trovò trecento euro in biglietti di piccolo
taglio. Esattamente l’affitto mensile che avrebbe dovuto consegnare al suo
padrone di casa.
Lui, nel suo, ne aveva solo cinquanta, di euro, e
gli sarebbero dovuti bastare fino alla fine del mese. Si fermò in tutte le
bancarelle e acquistò un berretto e una sciarpa per Giada, un caleidoscopio per
Lorenzo e, per sé, la riproduzione dei due angioletti di Raffaello, da
appendere nel monolocale dove abitava da poco. Perché anche per lui era Natale!
Giusto cinquanta euro.
“Grazie”, “Grazie
Pà”. I ragazzi, in piedi, nell’anticamera della loro casa, tenevano i pacchetti
in mano senza aprirli.
“Beh?”, fece Giorgio, “ Non guardate neppure cosa
c’è dentro?”
“ Li apriamo tutti a mezzanotte.” , rispose Giada,
tastando il pacchetto morbido per indovinarne il contenuto.
“ Non ti ricordi?”, Lorenzo gli era andato vicino,
guardandolo con durezza, mentre da lontano Nadia, la moglie, abbassava gli
occhi.
“ Certo che mi ricordo!” esclamò Giorgio a voce
alta. “ Solo, come faccio a sapere se vi sono piaciuti?”
“ Ti mandiamo un sms.” rispose Giada.
“ Già, un sms… Va bene. Beh, auguri a tutti.” e
Giorgio aspetto che i due figli si avvicinassero frettolosamente per dargli il
bacio tradizionale di Natale e poi si lasciò la porta alle spalle.
Entrò in un bar vicino e cercò una moneta per
prendersi un caffè.
Trovò in tasca il borsellino rubato e lo tirò
fuori. Aveva una tasca laterale. Con un po’ di pudore guardò dentro. C’era
l’immagine dei due angioletti che aveva appena acquistato, quelli che piacevano
tanto alla sua mamma.
Tirò una bestemmia, poi si accorse che il gestore
del bar lo stava guardando male. Proprio a Natale, le bestemmie.
C’era anche una foto in bianco e nero di un uomo
con una grossa cravatta e i capelli radi. Sarà stato il marito, pensò. Sotto, il nome: Alcide Sogni.
Prese il suo, di portafoglio, quello che si era
comprato a Eurodisney durante l’ultima vacanza che aveva passato insieme alla
sua famiglia. Gliel’aveva fatto prendere Giada e aveva il marchio di Topolino.
Era lì che conservava la foto di sua madre e dei suoi figli.
Bestemmiò ancora pensando che chi ha inventato gli
scrupoli di coscienza ha fatto un buon lavoro. Ma la vecchia non le poteva
mettere da un’altra parte tutte queste cose?
“ Mi dà un elenco telefonico, per favore?” Giorgio
si mise a sfogliarlo fino a che non trovò Sogni Alcide, Via San Sepolcro n°…
Si segnò il numero di telefono e pensò di chiamare,
ma non sapeva cosa dire. “ Sono il ladro e voglio ridarle la foto di suo
marito?” No.
Allora, senza accorgersene, cominciò a camminare
con passo svelto, scendendo giù nel cuore popolare di Piacenza, lo stesso dove
era nato.
La neve stava ricominciando a cadere e non aveva
l’ombrello. Il giubbotto era tutto bagnato.
Alcide Sogni. Ormai erano le sette e mezzo di sera
quando aveva suonato il campanello.
“Chi è?” Una voce un po’ sospettosa gracchiò dal
citofono.
“ Signora Sogni… ho trovato il suo borsellino e
sono venuto a restituirglielo”
“Oh, venga venga!! Terzo piano.”
Mentre saliva le scale della modesta palazzina, gli
arrivarono alle narici piacevoli profumi provenienti dalle cucine, dove
fervevano i preparativi per la cena della Vigilia.
Sentì una chiave girare varie volte nella toppa,
poi da una porta appena socchiusa si affacciò la vecchietta del pullman.
“ Eccolo.” Giorgio
le porse in fretta il borsellino. “ L’ho raccolto quando è scesa alla
sua fermata, ma ormai era troppo tardi per raggiungerla. Buonasera.”
“ Oh, grazie di cuore!” L’anziana gli strinse le mani con
riconoscenza. “Lei non sa quanto ero disperata. Non tanto per la mia pensione,
ma per i ricordi. Sa, alla mia età…”
“ Si immagini.” e l’uomo si diresse verso le scale.
“Aspetti!”, lo rincorse. “ Ma dove va? È tutto
bagnato. Prenda almeno un caffè.”
Giorgio era imbarazzato, ma senza volere si ritrovò
seduto al tavolo rotondo della piccola cucina, dove una stufetta emanava un
piacevole calore.
“ Ma lei è il signore della mostarda!” l’anziana
gli si rivolse come a un vecchio amico. “ Devo ringraziarla doppiamente. Prenda
ancora un po’ di caffè.”
La signora si chiamava Adele ed era vedova da poco.
Quella foto del marito era l’unica rimasta dopo che le avevano rubato in casa.
“Lei non si immagina che gente che c’è in giro…”
scosse la testa. “ Mica sono tutti come lei. Non manca neanche un euro dal mio
borsellino!”
Giorgio, che aveva rimesso dentro i cinquanta euro
spesi, si mosse sulla sedia, sentendosi a disagio. Si alzò per andarsene quando
gli cadde a terra il quadretto con i due angeli che si era comprato al
mercatino di Piazza Cavalli.
“Oh, che combinazione!” , esclamò la vecchietta. “
Sembrano quelli che porto sempre con me.”
“Ecco” disse Giorgio, “Mi ero dimenticato: sono per
lei. Ho visto gli angeli nel suo borsellino e ho pensato di farle un piccolo
dono, ma adesso devo proprio andare.”
“Ma ha mangiato?” lo trattenne la Signora Adele. “
Guardi, anche se è morto mio marito, ho deciso di preparare la cena della
Vigilia per due, come se lui ci fosse
ancora. Sa, io sono di origine meridionale e da noi è tradizione cenare con la
zuppa di pesce. A lei piace? Ah, poi le apro la mostarda! Sempre che non ci sia
nessuno che la aspetti a casa.”
A Giorgio si inumidirono gli occhi e mentre la
bocca diceva alla signora che non poteva accettare i piedi e le gambe
rimanevano fermi e si sedettero al tavolo mentre Adele, felice, apparecchiava
per due.
Il suo giubbotto, appeso vicino alla stufa, si
stava asciugando.
Dopo la cena Giorgio aiutò Adele a riordinare.
Mentre riponeva l’ultima posata nel cassetto,
Giorgio pensava con nostalgia a tutte le Vigilie che aveva trascorso insieme a sua madre, che si
concludevano sempre con la messa di mezzanotte.
“Adele, andiamo alla messa di Natale?”
“Ma no, con tutta questa neve e questo freddo:
rischio di rompermi una gamba! Una volta ci andavo, ma ora ho paura!”
“Non si preoccupi: la sorreggo io.” E lungo le
stradine della vecchia Piacenza rese ancora più sdrucciolevoli dalla neve,
quella strana coppia, il ladro e la derubata, camminava sottobraccio.
La chiesa di San Sisto, illuminata a giorno,
risplendeva nella magnificenza dei suoi affreschi e dei suoi addobbi rossi e
dorati. L’organo maestoso iniziò a diffondere le notte gioiose di Notte
Silente, Notte di Natale; dal coro la voce bianca di un bambino, sottile e
delicata come un filo di seta, dettava l’inizio di “Astro del ciel”.
Al centro della navata centrale, sopra l’altare
maggiore, troneggiava la magnifica Madonna Sistina di Raffaello, con Gesù Bambino
in braccio, mentre gli angioletti dipinti ai piedi del quadro sembravano
strizzare l’occhio a Giorgio.
“Ce li hanno rubati i tedeschi” gli sussurrò Adele.
“ Si sono comprati l’originale.” E l’uomo rispose serio: “Sono così belli che
viene proprio voglia di rubarli.”
Quando, a mezzanotte, le campane si misero a
suonare a festa, la vecchietta disse a Giorgio: “ Esprima un desiderio: è
Natale e oggi ha fatto tante buone azioni. Il Buon Dio la esaudirà.”
“Non credo” le rispose Giorgio e intanto guardava,
appesa al braccio di Adele, la borsa da cui aveva rubato solo poche ore prima.
Ma lo espresso lo stesso.
In quel preciso momento sentì vibrare in tasca il
telefonino. Era un sms.
“Belli i regali! A Lorenzo piace da matti il
caleidoscopio e il berretto e la sciarpa hanno dei colori stupendi. Ah, ha chiesto la mamma se domani vieni anche tu a pranzo. Buon Natale papà!”
FINE
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1° dicembre 2012
Questa settimana vi propongo il racconto contenuto nella nuova antologia di racconti "Fedele al Mito" il cui ricavato andrà all'Associazione Marchigiana Amico Fedele dedicato ai nostri amici a quattro zampe e ai miti dell'antichità. Per tutte le informazioni vi rimando al post in home page http://comelalunadigiorno.blogspot.it/2012/11/fedele-al-mito.html
Questa settimana vi propongo il racconto contenuto nella nuova antologia di racconti "Fedele al Mito" il cui ricavato andrà all'Associazione Marchigiana Amico Fedele dedicato ai nostri amici a quattro zampe e ai miti dell'antichità. Per tutte le informazioni vi rimando al post in home page http://comelalunadigiorno.blogspot.it/2012/11/fedele-al-mito.html
IL TALLONE D’ACHILLE di GCP
Fuori
dalle mura di Troia, il fragore delle armi dei combattenti disturbava il sonno
della bella Elena che, adagiata su un lussuoso giaciglio, riposava mollemente
con i suoi lunghi capelli castani sciolti lungo le spalle nude.
Paride,
a torso nudo, deposti gli abiti principeschi che indossava nelle sale della
reggia del padre Priamo, si coricò vicino a lei, sfiorandole la pelle
bianchissima con le labbra.
«Amore», le sussurrò, «Non dormi?»
La
splendida bocca della donna si corrucciò per un attimo, poi si aprì in un
sorriso bianchissimo e invitante. Paride non seppe resistere a questo richiamo
e si chinò a baciarla con passione.
«Ahia!» A pochi millimetri dal viso divino di Elena, il giovane fece una smorfia
di dolore e si alzò bruscamente dal giaciglio, mentre un minuscolo cane si
metteva ad abbaiare forsennatamente.
«Micron, Micron!» Elena tese le braccia verso un piccolo quadrupede dal
mantello marroncino e dalle orecchie lunghe, che le balzo sul petto, leccandole
il viso.
«Ecco, sempre a lui tutte le tue tenerezze! Brutto figlio di…» E Paride le strappò con violenza il
cagnolino dalle braccia e alzò una mano ostile verso di lui.
«Che Zeus ti maledica se oserai picchiarlo!» urlò Elena, colpendolo con i suoi
piccoli pugni sulla schiena. «Scapperò da Troia, tornerò da mio marito!»
A
questa minaccia Paride si paralizzò. L’incantesimo che lo aveva reso succube di
quella donna lo avvinse ancora una volta. Con un gesto umile si gettò ai suoi
piedi, liberando il cagnolino che, felice per lo scampato pericolo, si mise ad
abbaiare festante.
«Ho lottato tanto per averti», le sussurrò baciandola, «Ho fatto persino scoppiare una
guerra! Sarei un pazzo a lasciarti andare per un motivo così futile… Ahia!!»
Micron
gli aveva morso un polpaccio.
«Non sei simpatico a Micron. D’altronde sai, me l’aveva
regalato Menelao, il mio ex. Forse è un po’ geloso di te. E ha ragione: sei
così bello…», cercò di
blandirlo la donna.
Paride
girava furibondo per la stanza, mentre Elena accarezzava sul capo il volpino,
che stringeva gli occhietti, beato.
«Ancelle, ancelle!» urlò, con tutta la forza che mai nella sua vita aveva
prodotto in una battaglia.
Tre
schiave, vestite di bianco, apparvero all’istante, inchinandosi al loro
principe.
«Portate il cagnolino della mia sposa a mangiare. E fategli
fare un bel giro nel parco della reggia»
Elena,
a malincuore, lo tese alle donne. «Abbiatene cura!», raccomandò loro.
Poi
rimproverò Paride: «Tu non hai idea di quanto Micron mi sia stato vicino in
questi anni. Comprendi il mio trauma: trasferirmi dalla Grecia a Troia,
accompagnata da una pessima fama…»
«Lo so bene, quanto ti sia stato vicino. Così tanto che non
abbiamo mai avuto nemmeno un erede!», sbuffò il più giovane tra i figli di Priamo.
«Che brontolone», sorrise Elena, accogliendolo tra le sue braccia al
posto di Micron. «Con il tempo lo apprezzerai, vedrai!»
«Ora sì», mugugnò soddisfatto Paride, chiudendosi la porta alle spalle.
Nel
giardino della Reggia, Micron correva felice tra gli alberi secolari, che
Ecuba, la moglie di Priamo, curava personalmente, ispezionandoli ogni mattina.
Quel
mattino l’anziana regina stava passeggiando con Astianatte, il nipote
preferito. Mentre il bambino giocava con il volpino, rifletteva: «Volesse il cielo che tutto potesse
tornare come prima, piccola bestiola. Prima che arrivasse la tua padrona a
scatenare la guerra!»
«Ciao papà!» Il piccolo abbracciò Ettore, che attraversava pensoso il
parco. L’uomo era altissimo e muscoloso ed era munito di armatura e scudo.
L’eroe troiano sorrise al figlioletto e, dopo esserselo caricato sulle spalle,
gli fece fare una corsa con la sua spada in mano.
«All’attacco! A morte i nemici!», urlava il bambino. A queste parole
l’uomo, che aveva negli occhi scuri un’ombra di tristezza, lo fece scendere a
terra. «Non raccontare niente a tua madre.
Non dire che abbiamo giocato alla guerra. Sai che si arrabbia».
«Dove vai ora?» gli chiese Astianatte.
«Ho un duello con un principe greco, un grande combattente. Il
più forte del mondo», sospirò preoccupato.
«Mai come te, però, papà», esclamò sicuro Astianatte.
Commosso,
Ettore gli accarezzò i capelli. «Mamma, riportalo da Andromaca, ti
prego».
Mente
la stanca donna assentiva, Micron abbaiava festante attorno ad Ettore.
«Questo è il greco più simpatico che è arrivato a Troia», esclamò e ordinò a un’ancella: «Portategli un osso: il più bello e
succulento che esista in tutta la Reggia!»
Nel
frattempo, l’eroe greco Achille pensava che aveva sempre detestato i cani, e
viceversa, e non capiva il perché.
Anche
quando era andato in visita a Itaca, dal Re Ulisse, quel bestione di Argo gli
era saltato addosso. «Basta, basta!» aveva urlato spaventato l’eroe più forte di tutta la Grecia
e forse di tutto il mondo conosciuto all’epoca.
Achille
osservava tutte le incisioni che il dio Efesto gli aveva forgiato sul suo
celebre scudo e avrebbe voluto cancellare il cane da caccia che era impresso in
un piccolo angolo.
«Però, che opera d’arte!», si compiaceva tuttavia, facendolo brillare al sole.
Solo per descriverlo ci sarebbero volute ore e ore. Un aedo ci avrebbe persino
potuto scrivere un poema.
D’altronde,
tutto l’Olimpo si dava da fare quando si muoveva sua madre, che era una Dea
pure lei. Era sempre stato così, fin da quando era piccolo. Giocava a
nascondino con Atena ed Era, e se aveva bisogno di un postino, la mamma
chiamava direttamente Ermes.
Gli
mancava molto una vita normale. Sua madre Teti, Ninfa delle acque, stranamente
non gli aveva mai comprato un cane, tanto per tenergli compagnia.
Ecco
perché si era tanto affezionato al suo amico Patroclo.
Sospirò
amaramente: la guerra gliel’aveva tolto. Una guerra che non aveva mai avuto
veramente voglia di combattere. Nonostante fosse il più forte di tutti, quello
dal piede più veloce, dalla voce più tonante, dal braccio più potente, dal
corpo più perfetto.
Dura
la vita, anche per i semidei.
«Al lavoro!», esclamò, chiamando gli schiavi per farsi aiutare a indossare
l’armatura.
Intanto
Micron si era introdotto nelle cucine della reggia, scortato dalle ancelle, che
chiedevano per lui l’osso più gustoso che potesse esserci. Il gran cuciniere
era indaffarato a preparare il pranzo nientemeno che per il Re e non voleva
essere disturbato. Fu un attimo: con un balzo improvviso il cane si impadronì
di un pezzo di carne che il cuciniere stava spolpando accuratamente.
«Fermo: non è un osso! Quello è il pezzo migliore: il pezzo
del Re!», urlò
inorridito il cuoco, mentre tutta la cucina si metteva alla caccia del
cagnolino, che si era dileguato con il prezioso bottino.
Una
folla di cuochi, servi e guardie inseguiva il volpino per tutta la reggia,
facendo inciampare la principessa Cassandra, che profetizzò immediatamente: «Non lo prenderete! Questo cane deve
prima adempiere al suo destino di morte», mentre tutti, come sempre, facevano le corna o si
toccavano al suo passaggio.
Ma di
solito Cassandra ci beccava sempre nei suoi vaticini, quindi, dopo due o tre
giri di reggia, nessuno riuscì più a trovare il cagnolino.
Micron,
intanto, nascosto dietro il trono di Priamo, se la spassava come un matto,
mangiandosi quel prelibato spuntino e riducendolo fino all’osso.
Abbaiando,
entrò trionfante nella camera di Elena, per mostrargli il risultato della sua
impresa.
«Amore… », sussurrava Paride alla sua amata, sprofondato nel talamo nuziale.
«Bau bau bau!», li interruppe Micron, con l’osso in bocca.
«Eccoti,
amore mio!» Elena si scostò bruscamente dal bel principe troiano e, coperta
solo dai suoi splendidi capelli, gli si accovacciò vicino. «Tesorino! Fammi vedere cosa mi hai
portato! Ma che bello e che bravo!»
L’ira
di Paride si fece tremenda. «Dei dell’Olimpo! Afrodite! Tu che dieci anni fa mi facesti
perdere la testa e innamorare di questa donna, dammi la forza di liberarmi da
questo scocciatore che mi tiene lontano dalla mia amata!!»,
invocò, alzando gli occhi al cielo, poi, difendendosi con un lenzuolo, tolse l’osso dalle
piccole fauci del cane e, tra le urla di Elena, lo lanciò fuori dalla finestra.
L’osso,
spinto da Afrodite, volò lontanissimo, arrivando addirittura fuori dalle mura
di Troia, e atterrò nell’accampamento dei Greci.
Micron
si lanciò dalla finestra per afferrarlo quindi si mise a correre per riportarlo
indietro. Come gli piacevano quei giochi!
In
campo avverso, la vestizione di Achille non era ancora completata. Gli schiavi,
prima di procedere, gli avevano cosparso il corpo di uno speciale unguento,
ideato da Atena, che gli avrebbe raddoppiato le forze. Non che ne avesse
bisogno: il suo corpo era invulnerabile, potentissimo e invincibile fin dalla
sua nascita.
Ecco
perché sua madre non l’aveva mai fatto giocare con gli altri bambini, per paura
che lui facesse loro del male, tanto era forte.
Solo
un punto del suo corpo era vulnerabile, ma sua madre non gli aveva mai rivelato
quale, per non fargli perdere l’ardimento, per non condizionarlo in battaglia.
Achille
era sempre stato curioso di sapere quale esattamente fosse. Ma cosa importava?
Lui era il più forte di tutti e l’avrebbe dimostrato proprio quel giorno,
uccidendo Ettore, il suo grande rivale.
“Sdeng”
Uno strano suono lo fece sussultare, mentre gli schiavi stavano per fargli
indossare i calzari da battaglia.
«Lo scudo di Efesto!», urlò uno dei soldati. Achille ordinò il silenzio e
vide che a fianco del suo divino scudo, leggermente incrinato, stava un osso di
montone, o di chissà quale altro animale, residuo di un pasto recente.
«Il mio scudo come il coperchio di una pattumiera?? Ma dove
credete di essere? Chi, chi è stato??» La sua ira era davvero funesta, e gli si fece il
vuoto attorno.
Brandendo
la lancia, si mise a ispezionare tutti i militi, mentre l’addetto alla sua
vestizione, con un panno pregiato, sfregava e ripuliva lo scudo di Efesto
sacrilegamente imbrattato.
Mentre
tutti erano terrorizzati, in attesa del probabile castigo, arrivò Micron, che,
abbaiando come sempre, cercava il suo bellissimo osso.
Achille
si ritrasse infastidito. «Ah, è tuo, cane di un Troiano!», esclamò puntandogli contro la
lancia e tenendo in mano l’osso. E poi, ai suoi schiavi: «Sbrigo questa faccenda e poi torniamo
alla vestizione… Ahia!»
Micron
gli aveva morso il tallone, facendogli cadere dalle mani l’osso, che aveva
riacciuffato prontamente.
«Prendetelo, non fatevelo scappare!!», urlò Achille, ma, mentre lo
ordinava, la sua immagine sbiadiva davanti agli occhi dei suoi. «Ma che aspettate??», urlava, mentre la sua sagoma si
faceva sempre più indistinta.
«Ma che succede?? Vedo i Campi Elisi, vedo il divino Zeus! Ma
allora il tallone d’Achille… era proprio il mio!!»
E
queste furono le sue ultime parole, mentre Micron, approfittando della
confusione generale, se l’era data a gambe, anzi, a zampe levate.
La
notizia della scomparsa di Achille e della conseguente richiesta di armistizio
presentata da Agamennone, comandante degli Achei, arrivò immediatamente a
Troia, stremata dall’assedio.
Ettore,
già pronto al combattimento, era stato fermato alle porte della città.
«Ma chi è stato? Cosa?? Un cane?»
«Io l’avevo profetizzato», assicurò Cassandra, che, come sempre, fu mandata a
quel paese da tutti.
Paride,
nel frattempo, appagato d’amore, si stiracchiava accanto alla bella Elena, che
aveva apprezzato il suo ardire. «Con le donne bisogna fare un po’ i
duri», pensava
specchiandosi.
«Bau bau bau bau!»
«Ancora tu!», gridò esasperato, e fece per allontanarlo dalla stanza,
quando entrarono in gruppo il Re Priamo, la Regina Ecuba, i principi Ettore ed
Enea e tutta la Corte Reale.
«Fermo! Non osare punirlo», decretò Priamo, «Questo cane ha sconfitto il più
valoroso dei Greci e per questo merita il più alto dei riconoscimenti!»
Pronunciò
un discorso di tre ore, al termine del quale chiamò un servo, che portava un
prezioso monile appoggiato su un cuscino di seta.
«Con l’aiuto di Apollo, Dio delle Arti, il fabbro di corte ha
forgiato in poco tempo un prezioso gioiello, simbolo della riconoscenza della
città di Troia a un suo cittadino illustre. Questo è per te, principe Micron!», e con grande solennità appese al
collo del cagnolino un bellissimo osso d’oro.
Tutta
la corte esplose in un applauso fragoroso, mentre il cagnolino scodinzolava
felice.
«Ma allora non devi più combattere papà!», festeggiava Astianatte, mentre
Ettore, perplesso, si toglieva l’armatura.
«E’ tutto merito del mio cagnolino!», cinguettava Elena.
«Non capisco, io avevo profetizzato che in questa guerra
c’entrasse un cavallo…», si grattava dubbiosa la testa Cassandra.
«Ma sta zitta, iettatrice!», le urlarono in coro tutti.
«Mai che si abbia un momento di
privacy in questa stanza!», brontolò Paride mentre Troia, in festa, portava in trionfo il suo nuovo
eroe.
FINE
Oggi ho scelto di proporre a chi viene qui, casualmente o no, il mio "L'ombrellone spento".
Questo racconto, vagamente e molto modestamente ispirato al tipo di scrittura di Marguerite Duras, è stato pubblicato dal quotidiano "Libertà" nell'estate del 2008 ed è inserito nell'Antologia dei Volatori Rapidi "L'ombrellone a tredici colori" (Edizioni LIR)
L’ombrellone spento
Sospesa, affacciata fino
quasi a cadere, la Donna dalla terrazza guardava il mare.
Il lungomare era brulicante
di persone, nonostante le prime frescure dell’autunno.
Solo quel piccolo angolo
che lei aveva scelto, una piccola sporgenza della passeggiata, a picco
sull’acqua, era deserto.
Il sole del primo
pomeriggio, ancora alto, liberato da ogni coltre dal vento, si rifletteva in
modo dirompente nell’acqua. L’energia che emanava da quell’istante era
fortissima. Un milione di bagliori di luce, ad intermittenza, si accendevano e
si spegnevano nella grande massa fluttuante.
Il mare era di un blu
intenso, mentre il cielo era chiaro.
La Donna non aveva mai
visto una tale dissonanza di colore tra acqua ed aria.
«Il colore del mare
racconta il futuro,» le aveva detto una volta sua madre. «Porta il colore del
giorno che verrà.».
«Come la fata Morgana
conduce nel deserto l’immagine di oggetti lontani, distanti chilometri, il mare
riflette il colore di luoghi lontani, come un gioco di specchi. »
«La mia mente è come il
mare » sussurrò in modo impercettibile la Donna «Ha proprio il colore del
giorno che verrà…»
Un brivido di tristezza la
percorse tutta, come un presagio.
L’Uomo stava a qualche
metro di distanza e la guardava con l’identica intensità con cui lei guardava l’acqua.
Senz’alcun dubbio, dal suo
punto d’osservazione, era lei, non il mare, l’oggetto di metafore, di strani
discernimenti, di lirismi. Di tutti quei procedimenti mentali che la Donna un
tempo aveva tanto amato in lui.
Ma ora la Donna non lo
stava guardando a sua volta. Era venuta meno la reciprocità.
Sentiva gli occhi dell’Uomo
fissi sulla propria nuca, brucianti di preghiere non formulate, di richieste
non espresse, ma continuava a guardare il mare e gli dava le spalle.
Un simbolismo che alla sensibilità acuta di quello che per
tanto tempo aveva considerato il Suo Uomo non
sarebbe sfuggito.
Per la Donna il passato era
alle sue spalle, davanti vi era la vastità dell’ignoto, scintillante di
promesse, ma con tracce oscure che la inquietavano.
Il volo dei gabbiani
descriveva in quel momento strane geometrie, linee ascendenti e discendenti.
Con estrema naturalezza anche i nostri sentimenti si elevano verso qualunque
cielo con lievità o impetuosità, ma spesso la stessa forza che li spinge verso
quelle altezze li fa ricadere con l’impercettibile leggerezza di una piuma o
con il fragore di un meteorite.
Così la Donna, con
un’improvvisa luce nella mente, ebbe la percezione che l’amore per quell’essere
che la fissava con tanto desiderio fosse entrato nell’eterno sistema di
trasformazione dell’universo e diventato qualcosa di diverso.
La bellezza del luogo, il
suono profondo e vivace di un sasso che un bambino aveva lanciato tra i flutti
e questo pensiero le fecero scivolare una lacrima su una guancia.
«Quando guardo il mare
credo all’esistenza di Dio» gli aveva detto voltandosi per un quarto verso di
lui.
«Niente è più perfetto ed
imperfetto nello stesso tempo, niente è più evidente e nello stesso tempo
irriconoscibile nelle sue profondità. Niente è più cangiante ed immutabile, ma
solo nella sua essenza, non nel suo continuo flusso».
Recitava una frase che lui
le aveva dedicato per un anniversario, come egli faceva un tempo, quando
riusciva a parlarle con l’anima e non solo con la voce.
L’Uomo sorrise.
«Anche quando facciamo
l’amore credi nell’esistenza di Dio?» L’aveva cinta da dietro, sporgendosi
anche lui fin quasi a farla cadere.
La Donna aveva sorriso, ma
non aveva risposto.
«No», aveva pensato,
guardandolo già con gli occhi tristi e nostalgici dell’addio.
Non più, almeno.
Ma non si era sottratta
alla stretta.
Mentre sentiva le sue mani
che le stringevano la vita si affacciò ancora di più, fin quasi a sfuggirgli.
Vide, lontanissimo, un
ombrellone spento, sperduto in mezzo alla vastità della spiaggia.
Anche per lui era finita
l’estate. Aspettava solo che lo portassero via. Inutile, ormai.
Chi teme il tiepido sole
dell’autunno?
Chi ha bisogno di
protezione quando non c’è più bisogno di protezione?
Un’altra lacrima le scese,
senza che lui se ne accorgesse.
L’Uomo aveva lasciato la
presa per accendersi una sigaretta e la Donna ebbe un sussulto temendo di
cadere.
Ma non cadde.
Anzi, si sentì libera di
sporgersi persino di più, e così facendo vide arrivare un bagnino che sradicò
l’ombrellone e lo portò via…
«Ma tornerà l’estate e il
sole scotterà ancora…», si disse.
Di nuovo sentì le mani
dell’Uomo intorno alla sua vita…
La Sua Vita.
Improvvisamente ricordò le
frasi di sua nonna… « Ma se stai sempre
sotto l’ombrellone non ti abbronzerai mai! ».
L’uomo la strinse un po’ di
più… « Ti proteggo io» disse.
§§§§§§§
La mamma e la nonna, quando
era bambina, la portavano al mare, che distava pochi chilometri dalla loro
casa.
Assieme al corredo da
picnic si portavano dietro un ridicolo ombrellone, con il manico troppo corto,
che appoggiavano sulla sabbia senza nemmeno piantarlo.
Una volta, in preda
all’infantile incoscienza del pericolo,
aveva danzato con l’ombrellone in mano in mare, sotto la pioggia, come una
piccola figlia di Nettuno, poi l’aveva lanciato lontano e si era inzuppata di
acqua e di sale.
Libera come il mare in
tempesta, una sensazione che non avrebbe più provato.
Forse.
§§§§§§§
Sulla spiaggia una famiglia
si era sistemata proprio dove prima svettava l’ombrellone spento, e aveva steso
dei teli per godere del pallido sole di quell’ora e di quella stagione.
Disse al suo Uomo «Ci sono
dei periodi in cui si sta meglio senza ombrellone» e Lui annuì, senza
comprendere il significato profondo delle parole della sua Donna.
Era tanto tempo che non
comprendeva più nulla. O che lei non voleva che lui comprendesse più Nulla.
Avevano aspettato in
silenzio che il sole terminasse la sua lenta parabola verso l’orizzonte.
Prima che il sole, ormai
rosso fuoco, si inzuppasse completamente nell’acqua, la Donna si liberò
dall’abbraccio. «Andiamo?» disse.
«Perché? Perché adesso?» Le
parole dell’Uomo ora avevano l’insistenza di una supplica, come se ad un tratto
la verità lo avesse avvolto con la sua dura malinconia, e che, proprio per
questo, non riuscisse ad accettarla.
«Perché non sopporto gli
addii» rispose la Donna, separandosi dalla terrazza, dalle sue braccia.
«Come vuoi tu» aveva
risposto.
E si era lentamente mosso,
dando un’ultima occhiata al sole morente e alla Donna.
Si inginocchiò per
allacciarsi una scarpa.
«Tutto si scioglie, tutto
si ricompone» gli disse la Donna sorridendogli appena, mentre lui prendeva tra
le mani i due lacci, prima di volgergli le spalle.
Le nuvole scarlatte
plasmate dal vento stavano ancora cambiando forma.
L’Uomo, improvvisamente,
sentì lo stesso desiderio di andarsene e dopo aver stretto il nodo si alzò,
sollevato, mandandole un bacio sfiorando appena le labbra con le dita.
Ma lei ormai non poteva più
vederlo, così lui rimase fermo, immobile in quel gesto come una statua, come in
uno di quei sogni strani che la Donna prima gli raccontava.
Tutto si ricompone, domani
ci sarebbe stata un’altra alba, di certo un’altra estate e chissà… si disse.
Si allontanò a passo
spedito, mentre le brume del crepuscolo lo avvolgevano lentamente.
Ho deciso di postare un racconto alla settimana. Ecco quello della seconda settimana di novembre.
A dire il vero però sono due. Sono dello stesso progetto di romanzo. Il primo è stato pubblicato dal quotidiano Libertà nell'estate del 2009.
Prima o poi lo scriverò questo romanzo. Credo prima. Sarebbe ora.
Haima si ricollegò .
Era caduta, in gergo. Uno sbalzo di corrente, un problema al programma e ci si trova disconnessi dalla Rete. Una liberazione o una tragedia. A seconda dei momenti.
Ecco la chat… Stavolta cliccò solo su un nome, un nome a caso. Un nome di uomo.
Picchiettava i tasti della tastiera del computer compulsivamente.
Scriveva ad una persona qualunque.
Una persona conosciuta quattro minuti prima a cui come sempre aveva voglia di raccontare la sua vita.
Finì la frase, mise uno smile e schiacciò invio. Le sue parole comparvero davanti allo schermo della chat.
Il solito interlocutore leggermente più giovane di lei le scrisse che era molto interessante e stimolante, Haima digitò per l’ennesima volta uno smile e ringraziò ricambiando il complimento.
Di dove sei? Il sei scritto con il numero 6.
Emilia Romagna, digitò ancora Haima. Torino, le comparve sul computer.
Never - Cosa fai nella vita?
Haima – Impiegata - scrisse. Aspettò: Never rispose : - Anch’io.
Infilò un CD nel computer e la solennità del Tannhauser riempì la piccola stanza.
Parole piccole, parole stupide…
Never - Come 6? Io castano chiaro occhi verdi 1.82…
Haima cominciò a seguire il ritmo sacrale della melodia di Wagner, percorrendo cerchi concentrici con il mouse sulla scrivania.
La freccia descriveva ora strane figure sullo schermo…mentre compariva di seguito:
Never – Haima 6 sparita?
Never – Haima non 6 + collegata?
La freccia raggiunse la x della finestra del programma. Click. La chiuse.
Never avrebbe scritto ancora qualche 6, qualche xché per due o tre minuti…poi si sarebbe collegato con Soleluna o Java, con un nome qualunque trovato nella lista della chat…
Chiuse gli occhi, trasportata da quella musica, innalzata dal genio di un Altro ad una condizione di momentanea superiorità sugli altri.
Ma perché proprio lei, con la sua cultura, la sua storia, le sue passioni, perché era lì a chattare, come una ragazzina sciocca… Ma Chi è che conosce in fondo il popolo della chat? E la sua disperazione?
Haima riaprì gli occhi e si alzò dalla scrivania. Si guardò allo specchio e vide una sconosciuta dagli occhi pesti.
Si prese la testa tra le mani, quasi a soppesarla.
Cercava i pensieri, le emozioni, cercava dentro il bianco dei suoi occhi, dentro il nero delle pupille la voce dentro, una voce che non sentiva ,che forse non aveva mai sentito.
Si spogliò completamente e guardò con altrettanta curiosità il suo corpo. Quel corpo che nessuno al di là del suo schermo avrebbe potuto realmente toccare. Aveva bisogno di sentire il suo corpo. Corpo vero, non virtuale.
Tutte le donne sono uguali, si disse.
Sorvolò sugli attributi sessuali, uguali, irrimediabilmente uguali, si disse, per tutte.
Quegli stessi che sera per sera le scorrevano sullo schermo mentre faceva sesso su Internet. Virtuale, o effettivo, chissà.
Una volta aveva fatto l’amore, nella vita reale – come dicono tutti gli avatar - con un uomo conosciuto su Internet e di cui non ricordava a momenti neanche l’aspetto.
Si erano incontrati nel bar di una città vicina.
Ricordava i suoi gesti, il contatto con il suo corpo sconosciuto, lo toccava ma era come se fosse stata da sola.
E poi…accidenti. Il meccanicismo del corpo è sorprendente.
Un bacio non avrebbe portato a quella situazione di non ritorno. Dieci baci sì.
Si era quasi sentita costretta, in quella macchina, a rendersi conto dell’inevitabilità della situazione.
Sorrise amaramente al pensiero. Fare l’amore con qualcuno per scusarsi di averlo portato ad uno stato di estrema eccitazione, quando lei aveva bisogno solo di un bacio.
Dopo si era sentita sporca per mesi e non aveva più voluto rivederlo. E nemmeno più incontrarlo tra i bit del computer. Aveva fatto click e lo aveva messo nel cestino.
Haima camminava avanti e indietro davanti allo specchio.
Si sentiva indifesa e troppo vera, troppo reale per potersi affrontare. La pelle cominciava a incresparsi per la tensione nervosa.
Si accovacciò e iniziò a tremare. Il pendolo suonava l’una di notte e Haima si sentiva disperatamente sola. Era ferragosto e tremava. Un freddo virtuale anch’esso.
La notte le avvolgeva l’anima come un labirinto in cui non riusciva a trovare libera uscita.
In televisione una maga, privata dell’audio, mescolava le carte.
La musica di Wagner strideva con i capelli giallo canarino, con le mani nodose della cartomante.
Il bello e il brutto, il solenne e il futile abbinati ci creano sempre un’inquietudine, un’improvvisa percezione della varietà, della diversità, delle infinite scelte a cui siamo sottoposti ogni giorno.
Haima nuda si affacciò alla finestra. Forse il vicino di fronte l’avrebbe vista e avrebbe fatto pettegolezzi per una settimana, ma non gliene importava. D’altronde il caldo ferragostano l’attanagliava con la sua umida e rovente inesorabilità.
Oscillò appoggiandosi al parapetto. Ecco. E se si fosse gettata? Quinto piano. Sicuramente sarebbe morta. Il lavoro di nove mesi di sua madre, i suoi diciotto anni di studio, il suo intervento per correggere la miopia, persino l’otturazione al dente fatta una settimana prima… tutto bruciato nel giro di quattro, cinque secondi al massimo.
Sentì un vago senso di eccitazione e di onnipotenza. Poteva farlo. Aveva in sé il potere della distruzione. Poteva agire sulla realtà.
Poi il vicino avrebbe raccontato tutto. Il fatto di averla vista nuda alla finestra avrebbe avuto ben altra valenza, sarebbe stato uno strano cerimoniale di morte. Avrebbero trovato il suo corpo scomposto sull’ asfalto e non avrebbero potuto fare a meno di guardarlo in modo morboso e magari di ammirarlo.
Il giornale avrebbe cercato furiosamente in ogni spiraglio della sua vita per trovare un perché. Sarebbero nati dibattiti, avrebbero consultato psicologi e sociologi. Avrebbero anche litigato per accreditare le loro tesi. Il sacerdote incaricato dell’uffizio avrebbe invocato la pietà per la sua anima e si sarebbe rifugiato nel mistero di Dio.
Le apparve la figura di sua madre dolente, morente per il crepacuore e, come colpita da una scarica elettrica, si raddrizzò e si allontanò dalla finestra stringendo gli occhi e gemendo dal dolore.
Scherzi della notte, della notte di ferragosto.
Quando tutti festeggiano al mare sotto gli ombrelloni o in montagna, con stelle filanti, gavettoni e fuochi d’artificio.
E solo pochi stupidi passano le ore davanti ad un freddo schermo. Freddo da brividi.
I complici della notte, i detenuti di una vita non vissuta.
Ma era solo una notte in fondo, come tante altre.
Riaccese il computer. Dopo un minuto ricomparve Never :- Ci 6?
Never – Ci 6 , ho visto, ci 6…
Haima – Sono tornata
-Perché non mi vuoi dire il tuo vero nome?
-Il mio vero nome. Che te ne fai del mio vero nome… Potrei scriverti Teresa o Sara o Barbara. Cosa cambierebbe per te? Ti mentirei e tu avresti una bambola mentale con cui divertirti e magari eccitarti
-Sei complicata Haima. Volevo solo esserti amico. Tutto qui. Io mi chiamo Ivan. Ti giuro che mi chiamo Ivan.
-No, qui sei Never. Sei solo un bit che vaga nel mio computer, come io vago nel tuo. Dopo che avremo spento lo schermo non rimarrà nulla né di me, né di te. Semplicemente non esistiamo. Siamo intrappolati qui.
- Ti ha fatto molto soffrire vero?
- Di chi parli?
- Della persona che ti ha ridotto in questo stato. Un uomo, un uomo che ti ha lasciato.
- ………………………..
- Haima, non ti leggo.
- Haima, ci sei
- Nn ti leggo
- ……………………….
- Scusa Never, era caduta la linea
- No, Haima, eri caduta tu… Allora è vero, ti ha lasciata
- Sai, è complicato. Mi amava molto, troppo. Mi ha lasciato proprio per questo, perché l’amore che nutriva per me lo allontanava dal lavoro, dai suoi studi, dalla vita, insomma. Ma sto semplificando troppo.
- Chi ama non lascia, non abbandona, non fa soffrire.
- Non lo so. Non so più niente ormai.
- Ma tu lo amavi?
- ……………….
- Lo ami?
- Non lo so. Forse, probabilmente. L’ho fatto scappare con i miei avverbi dubitativi.
- Avverbi dubitativi… parli difficile Haima. Perché non dici solo che non l’amavi. Altrimenti saresti riuscita a dirglielo.
- Chissà, forse hai ragione
- Che mestiere fa?
- ……………….
- Sei misteriosa, non mi rispondi. Sai che anch’io sono stato appena lasciato. La mia ragazza mi tradiva da tempo con un suo collega di lavoro. Stavamo assieme da tre anni.
- Mi spiace
- Figurati a me….
- …………………..
- …………………..
Haima spense di nuovo il PC. Per l’ennesima volta aveva incontrato il solito individuo comune, Banale, troppo banale.
Il “Templare” non sarebbe mai stato banale. Avrebbe arricchito anche uno scarno periodo di parole evocative, di un lusso intellettuale e stilistico che l’avrebbe lusingata, attratta irresistibilmente.
Emise un gemito sordo.
La prima volta che avevano chattato le aveva parlato di Bertrand Russell, di Brecht, del rock sperimentale statunitense tra il 1967 e il 1971.
Era stato come affacciarsi su un improvviso dirupo che nasconde agli occhi della gente dei tesori inestimabili.
- Ma conosci davvero tutti i dischi dei Dire Straits?
- Beh, non ne hanno pubblicati poi tanti.
- Dimmi la tua canzone preferita
- Down to the waterline e l’assolo di chitarra di Sultans of swing.
E poi si erano incontrati, piaciuti, frequentati…avevano fatto sesso, avevano discusso, capito le loro grandi problematicità e si erano lasciati. Anche perché uno abitava a Bari e l’altra nel profondo nord.
Il solito iter di Internet.
Per questo ora voleva solo amare da lontano. Provare un piacere che non fa male, una rosa senza spine.
Never – Cosa avresti voglia di fare stasera?
Haima – Non ne hai nemmeno idea, Never…
Never – Scommettiamo di sì…. Come sei vestita…? Sei vestita, vero?
Haima – No…
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----Messaggio originale----
Da:f.b@yahoo.it
Data: 10/12/2012 01.05
A: haima@libero.it
Ogg: R: Riconoscimento
Ogg: R: Riconoscimento
Cara Haima,
io non voglio che cerchi te
stessa in me.
Io non ho niente da offrirti.
Niente scorciatoie e niente alibi, io ti offro l’opportunità di essere te
stessa e di non indossare nessuna maschera.
Ti sto offrendo di riconoscerti
per quello che sei: io ti riconosco per quello che sei.
Ti offro te stessa perché sono
pronto – come dovrebbe essere pronto chiunque in un rapporto adulto, non in
quelle pantomime che hai vissuto – ad accogliere in me ogni tuo aspetto, a
comprenderlo, ad accettarlo. Tu guarderai i miei occhi e non vedrai l’ombra
riflessa di ciò che non mi hai detto, perché non avrai paura di dirmi ciò che
pensi, di raccontarmi le tue paure. Non dovrai temere il mio giudizio, non
dovrai temere di essere abbandonata se mi dirai tutto di te: al contrario.
Tu hai paura di farti amare, tu
rifiuti di farti amare.
Pensi che l’amore sia
frustrazione, negazione, lontananza, abbandono, privazione, assenza del corpo.
Amare è qualcosa che si fa soprattutto con il corpo, perché per amare bisogna
essere presenti: la vicinanza, l’essere qui adesso,.
Il corpo, Haima!! Essere presenti
con il corpo, una carezza, l’alito, il calore di un corpo vivo: da quando ti è
successo quello che ti è successo la tua capacità di amare è stata troncata.
Per questo ti stai lasciando
vivere, perché temi di soffrire ancora; per questo stenti ad avere ricordi,
perché il ricordo ti fa paura.
Per questo non sei capace di
amare e continui a chiedere aiuto a persone senza corpo.
Come me.
F.B.
Da:haima@libero.it
Data: 10/12/2012 01.35
A::f.b@yahoo.it
Ogg:R: R: Riconoscimento
Caro F.B.
desidero ringraziarti perché
nessuno prima d’ora mi aveva fatto una simile offerta.
Vuoi che sia me stessa con te,
senza nessuna maschera, solo, caro F.B. che
la maschera era il mio regalo per te, per non turbare i tuoi occhi, per
non immalinconire la tua anima.
Sei sicuro, sei veramente sicuro
di essere in grado di sopportare la mia vista?
Quanti aspiranti medici si sono
dovuti arrendere all’evidenza di non essere in grado di sezionare un cadavere o
persino di vedere il sangue.
Tu non hai idea, non hai proprio
idea di cosa si nasconda dentro di me.
Come posso essere certa che non
scapperai come gli altri al primo sospetto che non fossi come loro volevano,
come loro credevano.
E come potrei non essere
giudicata da te. Nessuno è indenne dal avere un’opinione, mi meraviglierei che
questo non succedesse a te.
Ma non è per paura che non mi
rivelo a te così come sono.
Niente è così com’è. Tutto ha
bisogno di un rivestimento, di una carta da regalo.
Ameresti il ventre piatto di una
donna se vedessi invece della sua pelle l’intricato annodarsi dei suoi
intestini? E non l’ apprezzi di più quando si fa bella per te, arricciandosi i
capelli, vestendo un abito seducente, indossando il suo sorriso più bello?
No, caro F.B. , non rifiutare il
mio dono, non rifiutare la maschera che con tanta cura ho costruito per te.
Sì, sono attratta dal vuoto,
perché posso riempirlo delle mie fantasie e, in definitiva, di me stessa.
Il pieno mi spaventa, mi toglie
spazio, temo che tolga anche la mia anima.
E poi non ci sono abituata. Ho
sempre vissuto in mezzo alle assenze, alle promesse mancate, ai coperti vuoti
nella tavola.
Tutta la mia vita è stata un
dialogo con il vuoto.
E' per questo che dialogo con
persone senza corpo,
come te
Haima
Colonna sonora: Ouverture del Tannheuser (Richard Wagner), esecuzione di Arturo Toscanini
.
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Archivio: 3 novembre 2012
Da oggi ho deciso di aggiornare il mio blog ogni settimana con uno dei miei racconti, alternandoli.
Ecco il primo racconto che vi propongo, pubblicato il 2 novembre 2012 da Libertà in occasione del dibattito sull'unione delle province di Parma e Piacenza, decisione governativa che ristabilisce l'antica struttura del omonimo Ducato Farnesiano.
Il racconto è stato tra i premiati del concorso “L’autobus del Tempo” nel 2008 con il patrocinio della Provincia di Piacenza. Quando è stato scritto esistevano ancora sia la squadra di calcio, che la Provincia di Piacenza.
Con l’augurio che l’una risorga e che l’altra non svanisca.)
Sventato omicidio
“Parma batte Piacenza 1 a
0. Il derby del Ducato, edizione 2008, va ancora alla squadra della sua
capitale”
- Ma lassa lé!-
Emilio spense la radio
del suo autobus di linea.
Lui ce l’aveva a morte con
il Parma.
Nella partita di ritorno
avrebbe esposto uno di quegli striscioni che a quei fetenti sarebbe venuto
male.
Lui ce l’aveva a morte
con Parma.
“A Parma c’è più vita,
Parma è diventata la capitale europea dell’alimentazione e piantatela col dire
che Verdi è piacentino che in tutto il mondo sanno che è di Parma!”
Ma c’era di più. Quello
che gli aveva portato via la Claudia, a due mesi dal matrimonio, era di Parma.
Riaccese la radio:
“Oggi 10 settembre è’ in
corso a Ginevra un esperimento che riprodurrà il big bang e creerà un buco nero
artificiale. Non temete, non ci sarà la fine del mondo né disturbi dello spazio
tempo anche se…”
Interessante, commentò
l’autista.
A lui piaceva tenersi
informato, cosa credeva la Claudia.
Per esempio quella storia
del Ducato e della capitale.
Era la storia di Pier
Luigi Farnese. Il figlio del Papa.
Roba del 1500,
all’incirca. Pier Luigi era venuto a stare a Piacenza, che allora era la
capitale del Ducato.
Poi i piacentini, che si
sa che sono diffidenti con chi viene da fuori, un bel giorno l’avevano
accoppato e i Farnese avevano fatto le valigie e se ne erano andati a Parma.
E da qui le scarogne dei
piacentini e l’insuperbirsi dei parmigiani.
Stava concludendo la sua
corsa alla stazione delle corriere di Piazza Cittadella.
Scese dal suo mezzo ormai
deserto e si stupì che non ci fosse nessun altro autobus fermo nel parcheggio.
Ma non c’era nemmeno più
la stazione, né i palazzi vicini.
Né il Palazzo Farnese!
Si girò e non vide più
nemmeno il suo n° 15!
Sparito anch’esso.
In compenso una carrozza
trainata da due splendidi cavalli lo investì, facendolo cadere a terra. Prima
che sparisse in uno strano edificio che assomigliava a una fortezza, fece in
tempo a vedere al suo interno un uomo barbuto, vestito come in un quadro antico.
Emilio era uno che non si
stupiva di niente.
Da quando poi la Claudia
gli era scappata via ancora meno.
L’esperimento sul big
bang, i viaggi nel tempo… Oddìo, vuoi vedere?
Si alzò dolorante e si
guardò attorno.
Una vecchia si fermò e,
sbarrando gli occhi davanti alla sua divisa da autista, si mise a urlare: –
Stregoneria, stregoneria!-
-Taci brutta megera e
dimmi dove mi trovo e quando!-
-Anno del Signore 1547,
10 settembre. E questa è la dimora dell’eccellentissimo Duca Pier Luigi
Farnese. E’ passato prima in carrozza– biascicò tremante.
Pier Luigi! Proprio lui!
Ne stava parlando proprio prima mentre… l’esperimento!Il buco nello spazio
tempo!
Ma che importava, aveva
una missione ora da portare avanti!
Fu così che Emilio
l’autista di Tempi si recò da Pier Luigi il Duca dei Farnese.
“Non
deve morire, non deve morire!” – diceva stringendo i pugni.
Ripensò a Claudia e al
marito parmigiano e accelerò il passo.
Bussò al portone della
fortezza, quella stessa dove aveva visto scomparire la carrozza, e subito gli
si radunò attorno la guardia: un branco di feroci soldati armati di alabarde.
-Cosa vuoi? –
-Voglio salvare il Duca
Pier Luigi che rischia di essere ucciso –
Uno dei capi dei soldati
sbiancò.
Dopo pochi secondi
l’autista si ritrovò con una spada puntata alla gola: – E voi facevate parte
della cospirazione! Aiuto! –
-Chi sei miserabile? Da
chi mi vuoi salvare?- l’uomo della carrozza, che indossava un prezioso abito di
velluto rosso, lo apostrofò con aria di scherno, mentre usciva dal palazzo.
- Duca- ansimò Emilio- io
vengo dal futuro per dirti che oggi, se non stai all’erta, i nobili piacentini
ti pugnaleranno a morte. Anche questi soldati sono contro di te! –
Una goccia di sangue
sgorgò dal suo collo, mentre il capo della guardia urlava: – Uccideteli tutti e
due!
Emilio si divincolò e
spinse Pier Luigi dentro il palazzo.
Si barricarono assieme
nel salone più interno.
Doveva
essere un altro effetto dell’esperimento del buco nero se il Duca ascoltò e
credette al suo racconto, ai congiurati, al suo viaggio dal futuro di cui lo
convinse mostrandogli una foto che, manco a dirlo, era della Claudia prima che
sposasse quello di Parma.
Il Duca mandò un piccione
viaggiatore dalla torre della cittadella e, dato che non era meno efferato di
chi lo voleva morto, fece arrivare un battaglione fedele a suo padre Papa
Paolo III che sterminò i suoi nemici. Altro che la scena di Ulisse che ammazza
i proci… tutti i ribelli furono massacrati e Pier Luigi fu portato in trionfo.
-Cosa vuoi –disse
alla fine il Duca- per il tuo servigio?-
-Che Piacenza sia sempre
la capitale del Ducato. A Parma costruiscici delle galere. E per me una grande
carrozza: sono abituato a viaggiare comodo-
Il Duca gliela fece
trovare proprio dove lui di solito parcheggiava l’autobus. Emilio vi salì
tronfio e felice.
Mentre i cavalli
partivano al galoppo una brusca frenata lo riportò alla realtà.
Era di nuovo sul suo
autobus, il n° 15.
Quel diabolico
esperimento…come per magia era tornato nel presente, allo stesso punto di
prima.
Si
guardò attorno: il Palazzo Farnese era raddoppiato, altre torri si affacciavano
sulla piazza e uno splendido giardino sorgeva al posto del mercato coperto.
Al dito portava una fede
con scritto “Emilio e Claudia”.
Dalla radio:”Piacenza
batte Parma 2 a 1, si aggiudica il derby la città di Verdi, capitale del
Ducato.”
Un sorriso irrefrenabile
lo illuminò.
-Tiè!-
GCP
P.S. CURIOSITA’ STORICHE
Il 10 settembre
1497 il Duca Pier Luigi Farnese fu ucciso a pugnalate da alcuni nobili
piacentini. A seguito di questo avvenimento il figlio Ottavio spostò la sua
residenza da Piacenza, che era allora la città più importante del Ducato,
a Parma per sdebitarsi della fedeltà dei suoi cittadini dopo l’assassinio
del padre.
Lo stesso
Ottavio decise di sospendere i lavori previsti per il completamento di
Palazzo Farnese a Piacenza.
Il 10 settembre
2008 è stato effettuato a Ginevra, a cura del CERN, L’Organizzazione Europea
per la Ricerca Nucleare, un esperimento per riprodurre il big
bang e creare un buco nero. Alcuni avevano predetto la fine del mondo e
il verificarsi di inaspettati viaggi nel tempo. Qualcuno asserisce di essersi
ritrovato per qualche ora in un’altra dimensione storica
Il passato è passato ed hai voglia a rimestarlo, a scompigliarlo, a tentare di modificarlo: resta sempre lì, uguale e irridente! Il futuro è finto ed esiste soltanto nella tua fantasia; il presente fa quasi schifo. Insomma?! Meglio scherzarci e ogni tanto prendersi qualche libertà di sfotterlo: il tempo, si intende!
RispondiEliminaO.K.
Il passato incide, quanto incide sul presente! E, come nella legge dell'Entropia, è immutabile. Ma quanto sarebbe bello se invece si potesse farlo!
EliminaPerò si potrebbe già pensare di essere nel futuro... e di essere qui a modificare il passato a nostro vantaggio. Fare quello che faremmo se potessimo rimediare... Un po' contorto ma da una trottola contorta cosa ci si può aspettare ;))
La "cosa" sembra diventare seria, ma seria davvero. Il tempo, dunque! Il passato, il presente e il futuro formano un impasto così compatto e indivisibile che, al solo pensarci, si rimane sconvolti e si potrebbe ricorrere al famoso: "Fermati attimo! Sei bello!" Ma anche se l'attimo si fermasse che succederebbe? Vedi, siamo tutti trottole e figli di una trottola. E il tempo non è che una trottola. O.K.
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