domenica 19 luglio 2009

Racconti sulla Luna




Per tutto il mese di Luglio, in occasione del quarantesimo anniversario dello sbarco sulla Luna, il quotidiano di Piacenza Libertà pubblica un'antologia di racconti dei Volatori Rapidi dedicata all'evento.


Ecco il mio!


Ti aspetto sulla luna

Quando aveva ricevuto quella telefonata era sotto la doccia e aveva risposto sua moglie.
“Come?” Sentiva appena il suono della sua voce sotto lo scroscio dell’acqua calda.
“Chi?” Sua moglie aveva un timbro acuto che con gli anni era diventato stridulo.
“Dove?” E poi non era mai stata una campionessa di conversazione.
A volte ci si ritrova sposati, padri, nonni, senza nemmeno sapere come.
Piacere Enrico, piacere Giovanna. La figlia del proprietario della ditta in cui era stato appena assunto. Abbastanza carina, tra l’altro. Perché no?
Dopo un anno era già in chiesa al braccio di sua madre che diceva a tutti: “Ha sposato una Salviati” con l’orgoglio di chi dopo una vita non deve più chinare il capo.
“Chi era?” disse strofinandosi i capelli argentati con il cappuccio dell’accappatoio, appoggiato al letto d’ottone.
Sua moglie si guardò allo specchio per controllare se aveva qualche capello fuori posto e sistemò un capodimonte che la colf aveva appoggiato male.
“Lamborghini, Laberghini, un tuo compagno di scuola. I calzini di filo di scozia sono nel cassetto.”“Organizza una cena di classe.” Sua moglie si allacciò il collier che lui le aveva regalato per le nozze d’argento. Si girò verso di lui con quello sguardo che mescolava tenerezza a comando, a cui lui era abituato. “Ma ci vai? Tanto si sa come vanno queste riunioni.” Aprì il cassetto porgendogli le calze.
“Lambertini! Chissà che fine ha fatto L’avevo visto in stazione anni fa, ma stava perdendo il treno…” Si infilò le scarpe inglesi di marca. “E…” gli venne in mente un altro nome. Un nome che un tempo scriveva su tutti i quaderni, su tutti i muri.
“Dai, vieni: siamo invitati a cena da nostro figlio, sei rintronato?” lo spinse fuori dalla porta con fermezza.
Lambertini era l’unico compagno che ricordava con un briciolo di simpatia.
Essere figlio di una madre nubile e frequentare il Classico a quei tempi era un ossimoro in una città di provincia. Tutti figli di medici, notai, avvocati. E lui di una donna delle pulizie. Ma lui era il più bravo. Chissà se anche il padre aveva queste doti. Era intelligente –raccontava la madre– ma mascalzone: aveva preferito sposare una donna benestante anziché lei.
In quella classe era a malapena tollerato, con due sole eccezioni.
Una era Lambertini. Si era trasferito da poco da Bologna ed era estraneo alle dinamiche delle piccole città.
E l’altra era la creatura più dolce che avesse mai incontrato. Sospirò.
“Ti ha lasciato il cellulare?” Si rivolse alla moglie tenendo in braccio il nipotino, che giocava con i suoi occhiali. Leone l’avevano chiamato. Enrico no, eh?
“Chi?”
“Il mio compagno di classe.”
“Ma ci vai?” sua moglie alzò gli occhi al cielo.
“Sai che boiata! Alla mia cena del decennale me ne sono andato dopo venti minuti.” William Rossi Salviati riprese Leone dalle braccia del padre.
L’appuntamento era fissato per il 20 luglio, la data in cui avevano pubblicato gli esiti della maturità quarant’anni prima, sul portone del Classico.
Non era un giorno qualunque quel 20 luglio del 1969.
E’ inevitabile che ognuno di noi viva sempre due vite: quella in cui si è immersi, che riguarda tutti e che riempirà i libri di storia delle generazioni successive e quella intima, che passa dal cuore e dalla pancia e che riempirà al massimo gli album fotografici di un paio di generazioni per poi perdersi nelle sabbie del tempo.
Così, mentre tutto il mondo aspettava che l’uomo sbarcasse sulla luna, gli studenti della III A del Liceo Gioia di Piacenza si chiedevano se sarebbero stati promossi o bocciati e il loro orizzonte terminava davanti a quegli scalini che avevano salito migliaia di volte, più importanti di quelli da cui sarebbe sceso Armstrong.

Arrivarono in ordine sparso. Erano irriconoscibili, ci sarebbero voluti i cartellini. Gli uomini pelati o incanutiti, le donne ingrassate e con i capelli dai colori più improbabili.
Guardò a tutti le scarpe e notò che solo lui indossava quel tipo di calzature che gli procurava sua moglie: inglesi indistruttibili. Le più belle.
Negli anni del liceo portava le Clark, ma senza alcuna rivendicazione politica: non poteva permettersi altre scarpe. In quella scuola tradizionalista la politica era entrata solo di sbieco, forse per paura di prendere troppa polvere. Poche occupazioni studentesche, pochi dibattiti politici. Un paio di contestatori e alcuni capelloni. Il sessantotto scritto in latino e in greco era arrivato in modo edulcorato.
A piedi raggiunsero un ristorante e si sistemarono nel grande tavolo come se fossero stati nei banchi. Lambertini arrivò per ultimo.
Enrico, stretto tra il notaio e l’avvocato, figli d’arte che non aveva mai potuto vedere, sussurrò all’ultimo arrivato il nome che aveva nel cuore fin da quando aveva sentito sua moglie al telefono.
“E Maddalena?”
Lambertini l’abbracciò forte. “Lo sapevo che saresti venuto solo per lei. È lei che ha organizzato tutto, sai?”
“E perché non è venuta?”
Dopo aver visto i voti finali Enrico e Maddalena erano scappati via in motorino. La partenza di Enrico era stata maldestra, ma il corpo fresco e morbido di Maddalena appoggiato al suo lo aveva fatto sentire come Giacomo Agostini.
Si erano fermati lungo la strada e non avevano resistito al richiamo dei loro baci, quelli che per un anno si erano scambiati furtivamente fuori dalla scuola.
Anche Maddalena non era una figlia di papà: i suoi avevano un negozio di alimentari. Era la più brava in italiano. Scriveva con uno stile che incantava: ogni parola sembrava cadere da un mondo meraviglioso e gentile.
Che importava se il resto della classe non li considerava, se nessuno dei due era invitato alle feste nelle ville patrizie. Loro avevano il Facsal e il loro amore.
La moto si era fermata ed Enrico aveva cercato nei jeans la chiave che apriva la casa di campagna di Lambertini, i cui genitori erano all’estero.
Tremando erano entrati, lasciando fuori dalla porta la loro adolescenza per conoscere per la prima volta l’amore, l’amore vero.
Lambertini interruppe il chiacchiericcio e accese il maxi schermo del ristorante che iniziò a riprodurre un filmato in bianco e nero. “Allunaggio!” un applauso accompagnava le parole di Tito Stagno, “No, mancano dieci metri.” lo correggeva Ruggero Orlando.
La III A si mise ad applaudire. “E bravo Lambertini: hai ricreato l’atmosfera.Vi ricordate che era il giorno della Luna?”
Nella villa c’era il televisore e Maddalena si era staccata dalla sua spalla e gli aveva detto: “Andiamo a guardare l’uomo che cammina sulla luna”. Abbracciati avevano visto Armstrong appoggiare il piede al suolo e pronunciare frasi storiche come quelle che si erano scambiati poco prima.
“Aspetta.” Gli aveva detto lei, prima di tornare a casa, dove in altre occasioni li avrebbe accolti una sonora sgridata. Ma loro avevano avvisato che avrebbero visto l’allunaggio assieme ai compagni. Tutto organizzato come e meglio che a Houston.
Aveva tirato fuori il taccuino dove scriveva i suoi pensieri e le sue poesie, facendogli leggere “Se mi cerchi ti aspetto sulla luna, distenderò lenzuola d’argento e preparerò dolci di rose e di miele” .
Poi ancora il suo vestitino leggero leggero contro la sua camicia, sulla vespa.
E poi l’estate e ancora tanti baci. E poi chissà…
Perché gli uomini sono sempre bravi a perdere ciò che è prezioso e a non ritrovarlo più?
“Perché non c’è Maddalena?”
Per Enrico non esisteva più nessun’altro, guardava Tito Stagno e sentiva ancora i capelli castani appena mossi di lei che gli sfioravano il petto…
Lambertini lo guardò fisso in volto.
“Mi aveva detto di non dirtelo... Maddalena ha un tumore. Ha poco tempo da vivere: sta facendo la chemioterapia: non voleva farsi vedere malata da te. L’ho incontrata in un ospedale. E’ ancora bella sai, anche se ha perso i capelli. Mi ha dato questo. Che strano che in certi momenti si ritorni ai ricordi di gioventù.
Enrico aprì una busta che portava il suo nome.
“Se mi cerchi ti aspetto sulla luna…” Era la pagina ingiallita scritta quarant’anni prima. “Ma cos’ha Rossi?” Il figlio del notaio guardava Enrico piangere.
“Era strano anche allora: sembrava sempre che gli avessero ammazzato il gatto!” e i vecchi compagni, deridendolo, ritrovarono se stessi. In fondo non era cambiato niente.
“Sono tornato.” Enrico posò la chiave sulla credenza ottocentesca.
Dopo un muto cenno di saluto alla moglie si sdraiò nella sua parte di letto.
Avrebbe voluto cercarla, Maddalena, dopo la laurea. E avrebbe saputo dove ritrovarla. E come riconquistarla. Ma poi la Ditta. E la famiglia Salviati.
Che poi in fondo era felice. In fondo.
Prese dal portafoglio il foglietto strappato.
“Buonanotte.” disse alla moglie semiaddormentata.
“Ti sarai annoiato, se stavi a casa era meglio: è venuto Luigi con la Carla che sono tornati da Sharm”
“Sì. Ho solo voglia di dormire.” Enrico stringeva in mano il foglio.
“Se mi cerchi ti aspetto sulla luna”, ripeté finché tutto sparì e comparve un vestitino leggero leggero. Poi dei capelli castani, appena mossi e un sorriso ingenuo.
“Quanto ci hai messo. Sono quarant’anni che ti aspetto sulla Luna…”
E le loro labbra si unirono nel bacio più dolce.

Giusy Càfari Panìco



1 commento:

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