Per la serie "I racconti estivi dei Volatori rapidi", pubblicata anche quest'anno dal quotidiano Libertà di Piacenza, eccovi il mio...
L'ho scritto di getto dopo una gita a Pennabilli, incantevole borgo romagnolo e ultima residenza di Tonino Guerra, indimenticabile sceneggiatore e poeta recentemente scomparso a cui, idealmente, dedico questa mia storia.
E grazie anche alla mia grande amica Emanuela Gravina, che mi ha condotto in questo meraviglioso luogo dell'anima.
L'ORTO DEI FRUTTI DIMENTICATI di Giusy Cafari Panico
Sotto il torrido sole di luglio, il borgo
medioevale che dominava le verdi alture a cavallo tra Romagna e Marche appariva
a chi vi sostava come una visione fiabesca.
Un uomo in giacca e cravatta si affannava tra le
stradine sassose, che si arrampicavano silenziosamente tra le case di pietra, alla
ricerca di un po’ di ombra e frescura.
«Ma dove caspita sarà il ristorante?» sbuffava,
allentandosi la cravatta.
Era capitato a Rimini per un convegno di consulenti
economici e ora, finita la kermesse, lo avevano invitato a pranzo in quello
strano paese.
Come si chiamava? Ah, sì: Pennabilli! Ma che
razza di nome: forse i romagnoli l’avevano inventato apposta, tipo
Mirabilandia. Il solito modo per far soldi.
Non si era ancora visto nessuno. «Tutti
goderecci, qui: si saranno fermati in spiaggia.»
Lui invece si sentiva un cretino: sempre l’unico
a rispettare orari e scadenze.
Mentre camminava, s’imbatté in una ragazzina con
un piercing al naso che spiegava a un gruppo di turisti russi: «Pennabilli è
stata l’ultima residenza di un poeta appena scomparso, che vi ha creato veri e
propri musei a cielo aperto, chiamati luoghi dell’anima. Ora visiteremo la cappella
dell’angelo con i baffi, più tardi entreremo nell’orto dei frutti dimenticati,
tra piante antiche e…»
«Ecco, lo sapevo: è un parco giochi! Però tra le
piante almeno ci sarà un po’ d’ombra!» bofonchiò Orlando, che continuava a
sentire un gran caldo, nonostante avesse allentato il nodo della cravatta
aziendale.
Seguendo un percorso di frecce decorate entrò nel
piccolo parco da un curioso portone. Un soave cinguettìo invitava alla quiete.
«Ti richiamo» sussurrò Orlando al collega che
l’aveva chiamato sul cellulare anche durante la pausa pranzo.
«Sttt!»
«Ma chi è che dice “Sttt”?» Orlando si girò verso
l’ingresso del giardino e non vide nessuno. Forse qualcuno voleva fargli uno
scherzo. «Piantatela!»
Il suo grido fece volare in cielo tre o quattro
uccellini che si erano appoggiati su un arco azzurro.
«Ma tas! Stai zitto!»
La voce gli era familiare: inflessione
piacentina, marcata, la erre un po’ difettosa, il tono sempre al limite
dell’isteria. Gli tornò l’eco due, tre volte: «Zitto zitto zittooo»
fino a che non ebbe dubbi: era la sua voce.
Rimase come paralizzato: la sua mente sembrava
sfuggire ad ogni controllo e non c’era abituato.
La voce lo invitò a togliersi le scarpe.
I fili d’erba accarezzavano i piedi curati che
Helga, la sua estetista, gli massaggiava ogni settimana.
All’improvviso le porte del cancello d’ingresso
cominciarono ad avvicinarsi l’una all’altra e Orlando si mise a correre a
perdifiato per paura di rimanere chiuso all’interno del parco. Non era abituato
a correre scalzo, senza le sue Nike da jogging, e inciampava continuamente.
Con un cigolio musicale, quasi un Doremi, le due
estremità della porta si serrarono.
Orlando si sedette a terra e cercò il suo
I-phone, senza perdere la calma.
In un batter d’occhio sarebbe uscito da lì. Dalla
sua banca in due minuti aveva fatto crollare un titolo in borsa, figuriamoci
ora!
Niente campo. Anzi sullo sfondo mobile del
palmare danzava beffarda la parola Sttt!
La curiosità lo spinse ad alzarsi e a camminare
con cautela.
Attraversò l’arco azzurro e si perse in uno
strano labirinto di pietra dove strisciava lenta una lumaca di bronzo. Trasalì
spaventato, ma poi un ricordo dolcissimo salì dalla sua anima.
Sua nonna, quando andava a trovarla in campagna,
gli dava il compito di raccogliere l’insalata. Era meraviglioso per un bambino
di città toccare una lattuga fresca, dalle foglie tenerissime: sradicarla era
insieme un peccato e un piacere carnale. La nonna la metteva nel lavandino per
lavarla. «C’è rimasta una lumachina: non ucciderla!», lo redarguiva, «Rimettila
nel giardino!» Orlando allora sceglieva un filo d’erba molto spesso e ve la
appoggiava delicatamente.
«Non sarò mai più così felice…» rifletté, mentre
un soffio di vento lo spingeva verso una pianta di uva spina. Ne respirò il profumo, inebriato. «Quanto mi piaceva la tua marmellata, mamma!
Ti ricordi le merende al pomeriggio, dopo aver giocato a calcio?»
Lui era un calciatore scarso, un terzino che
faceva solo falli, ma sua madre lo accoglieva come se fosse stato Rivera. «Quanti
goal?» gli chiedeva «Quindici!» mentiva Orlando. E la mamma, sorridendo, apriva
il barattolo e spalmava la marmellata di uva spina sul pane fatto in casa.
«Ma che fai piangi?» La voce lo rimproverava ora. Ma non era la sua. Era quella di una
farfalla che gli svolazzava attorno. Aveva una voce femminile, dolcissima. Proprio
quella della sua mamma. «I maschietti non piangono. E poi sei un bambino e i
bambini devono essere felici!»
Glielo diceva con lo sguardo anche ora, quando
andava a trovarla all’ospizio. Ma era come se la sua anima se ne fosse andata,
da quando si era ammalata di quella brutta malattia dal nome tedesco, quella
che mangia i ricordi. La farfalla si posò sui suoi capelli e volò via.
Che ore erano? Si scoprì il braccio e vide, al
posto del suo rolex, quel vecchissimo orologio di plastica che il suo compagno
di banco, Riccardo, aveva trovato nell’Almanacco Topolino.
Come si erano divertiti in colonia nel
settantacinque! Facevano le prove per vedere se quell’arnese era subacqueo e
andavano sul fondo, per controllarne la resistenza, fino a diventare cianotici.
Riccardo... chissà che fine aveva fatto. Lui era andato al liceo e l’amico alle
professionali. Strano come l’infanzia sia democratica: è piu tardi che
cominciano le divisioni e le gerarchie. “Mica colpa mia” si disse. Ma era poco
convinto.
«Ci siamo incontrati per strada e non mi hai
salutato. Lo so che ti sei laureato e hai fatto i soldi. Ma almeno una stretta
di mano me la potevi dare», ticchettò amaramente l’orologio.
«Ma che ore sono veramente?» si chiedeva Orlando,
confuso.
«Cosa ti interessa? L’unico tempo che vale è
quello dell’amore» gli risposero due colombi innamorati, al centro di una
meridiana.
Uno si levò in volo e gli porse una bellissima
rosa blu, che comincio a parlare: «Non avevi mai tempo per me e mi hai
lasciato. Mi hai lasciato con questa: come se una rosa potesse ripagare tutto
l’amore che ti avevo dato!». «Angelica! Non volevo, non ero pronto. Pensavo mi
volessi soffocare.»
Il fiore proseguì: «Ero un ostacolo al tuo
lavoro. O forse per te ero troppo poco. E tutti i tuoi amici? Ricordi? Dicevano
che ti avevo fatto perdere il senno!»
La rosa cominciò a sfogliarsi
fino a perdere tutti i petali. «Mi hai fatto sfiorire perché mi hai
dimenticata. Lo sai che dimenticare vuol dire uccidere. Lo sai?»
La voce tacque, mentre Orlando, rimasto con il
solo gambo in mano, urlava un disperato «Nooo!» al cielo. “Sttt!!”
«Basta, vi
prego! Fatemi uscire da questo posto!» Orlando era arrivato nel suo giro
davanti a una porta di una chiesa.
“Don Don
Don!” La porta suonava come una campana. Avvicinandosi, si accorse che era
composta da detriti di tanti portoni di chiese, tutte quelle in cui era
entrato. Ne riconobbe una: quella dove si era tenuto il funerale di suo padre,
che gli apparve con il suo loden grigio e i suoi occhialini tondi. «Non mi
deludere», gli diceva sempre, con il suo accento di meridionale trapiantato al
Nord. Glielo ripeté anche ora
Non fece in tempo a rispondere che un forte
acquazzone si abbatté sul giardino. Una tempesta d’acqua, scrosciante come una
cascata, lo infradiciò fino al midollo. L’acqua gli bagnava gli occhi, gli
colava dai radi capelli, scivolava tiepida sui suoi abiti eleganti, gli
riempiva persino la bocca aperta per lo stupore.
La inghiottì senza volere. Sapeva di sale. Erano
lacrime. Tutte quelle che non aveva mai versato.
La scarica scenografica di un lampo si trasformò
in un tuono e gli rintronò dentro, paralizzandolo. Ma fu questione di un attimo
e poi il cuore riprese a battere più forte di prima, come un tamburo. Più
forte, più ritmato, più libero.
L’I-phone intanto annegava nella pioggia, mentre,
in un angolo, una piccola bottiglia, tintinnando, si riempiva.
Dentro una pozzanghera, intanto, galleggiavano i
braccioli da bambino, che suo padre gli infilava già da sotto l’ombrellone,
quelli arancioni sì, proprio quelli. E poi vi si rovesciarono i tortellini
della nonna, i pannolini che gli lavava sua madre, le ginocchia sbucciate…già
che bello sbucciarsi le ginocchia! Ci finirono tutte le lettere conservate nei
cassetti e i libri che non aveva più letto, e le figurine che aveva buttato via
senza nemmeno riguardarle. Ci precipitò anche lui fino a che l’acqua gli arrivò
al naso, ma Orlando, assetato di ricordi, non se ne accorse nemmeno.
L’arco azzurro diventò un arcobaleno e Orlando si
ritrovò, asciutto, davanti al cancello.
Fu lì che un custode lo vide, all’ora di
chiusura.
Assonnato, con l’aria distratta, Orlando teneva
in mano un’ampolla.
«L’ho trovata dentro il giardino» e la mostrò all’uomo:
un anziano con due baffi molto folti.
«Se vuole, se la può tenere come ricordo» gli sorrise
il suo interlocutore «Anzi, aspetti…» e vi attaccò un’etichetta con scritto “Orlando”.
Il turista lo guardò trasognato e si allontanò
con passi lenti, con l’impressione di aver ricevuto un regalo molto più
importante di un banale souvenir.
«Ecco un altro che ha ritrovato il senno. E tutti
i ricordi!» commentò l’angelo, che stranamente portava i baffi, all’amico
poeta, sbucato da una porticina nascosta dalle mura del giardino.
L’uomo sorrise, si rimboccò le maniche, e porse
all’insolito custode un’altra ampolla.
«Dio Bono! Qui non si riposa mai!» si lamentò bonariamente.
«Par
fòrza, la gente oggi si dimentica di tutto!»
«Crede di dimenticare… in realtà deve solo
raccogliere quello che ha seminato.»
«Ne sai una piu del diavolo… cioè dell’angelo, caro
il mio Tonino!» esclamò l’angelo con i baffi.
«Di te sicuramente: ti ho inventato io!» sorrise il
poeta.
«Sorbole!! E secondo te da dove ti è venuta
l’ispirazione?» brontolò l’Angelo, scuotendo le ali.
«Va là
dai…dat ‘na mòsa!»
E continuarono a bisticciare in
dialetto romagnolo, mentre lavoravano nell’orto dei frutti dimenticati,
vangando e disseminando nel giardino tutti i ricordi per il prossimo
visitatore.
FINE
grazie a te cara giusy! quando verrai ancora a trovarmi torneremo a Pennabilli! un abbraccione!
RispondiEliminaemy
O.K. ...ISSIMO
RispondiElimina(Superlativo del medesimo: l'O.K. No?!)