Giusy Càfari Panìco è nata e vive a Piacenza, ma le sue origini sono distribuite un po’ in tutta Italia, fra Lazio, Emilia Romagna ed Abruzzo.
È direttrice artistica del Piccolo Museo della Poesia Incolmabili Fenditure di Piacenza, unico museo della Poesia presente in Europa, inaugurato nel maggio del 2014 e nato per iniziativa dell’omonima associazione culturale al fine di realizzare il sogno di veder nascere il primo museo dedicato alla nobile accezione delle Arti letterarie; è direttrice della collana di poesia Oltre per la Casa editrice Pegasus Edition.
La scrittrice, poetessa e critico letterario ha pubblicato tre libri di poesie: Come la luna di giorno come la luna di notte (Lir Edizioni,2008), Moto a luogo (Lir Edizioni,2010) e Dalle radici al cielo (Pegasus Edition,2015), con prefazione del candidato al Nobel per la Pace Hafez Haidar; è anche fondatrice dell’Associazione Volatori Rapidi, con la quale ha partecipato al Festivaletteratura di Mantova del 2008 ed ha pubblicato cinque libri: 1995 km. Da Santiago (Lir Edizioni 2007), Confini (Domino Edizioni,2009), L’ombrellone a tredici colori, Undici viaggi insoliti, Dodici spicchi di luna (Lir Edizioni, 2010).
Nel suo lungo percorso artistico, ha vinto decine di premi internazionali di poesia, fra cui Emozioni e Magie del Natale(Premio letterario della città di Piacenza) in diverse edizioni e il Premio della Giuria del Concorso Scrivere Donna 2012 di Pescara, presieduto da Maria Luisa Spaziani, pluricandidata al Nobel per la Letteratura.
Giusy Càfari Panìco è membro dell’Associazione culturale Pegasus di Cattolica, del Premio internazionale Montefiore e del World Literary Prize, premio itinerante nel mondo.
Recentemente ha scritto tre pièces teatrali a quattro mani con l’attore e regista Corrado Calda: Il Labirinto degli Uomini Libro (2013), Game Over (2014) e Il Tascapane (2015), ispirato all’esperienza al fronte maturata dal poeta Giuseppe Ungaretti e replicata per ben due anni con il TDA Teatro Varese. Le tre opere sono state rappresentate con notevole successo di pubblico e critica. Ha condotto una rubrica settimanale di poesia per l’emittente radiofonica Radio Sound95, scrive per la testata giornalistica online Piacenza24 e collabora con il quotidiano Libertà di Piacenza.
Insieme a suo marito Corrado Calda tiene seminari di poesia e drammaturgia ispirati alla corrente poetica del Realismo Terminale, ideata dal celebre poeta milanese Guido Oldani; il quale ha collaborato con entrambi per un testo messo in scena durante Book City 2014 presso il teatro Franco Parenti di Milano.
Anche come scrittrice in prosa ha ottenuto prestigiosi riconoscimenti ed è presente in diverse antologie. Il suo ultimo libro di racconti si intitola Maschile Singolare (Lir Edizioni,2013) ed è imminente l’uscita del suo primo romanzo.
Sue poesie sono presenti nell’Antologia Novecento non più verso il Realismo terminale (La Vita Felice,2016) e un’intera silloge di dieci poesie dal titolo La luna è una moneta è contenuta in Luci di Posizione – Poesie per il Nuovo Millennio (Antologia del Realismo Terminale) edita da Mursia nel 2017.
Il suo fiorente bagaglio culturale e di esperienze nell’ambito letterario e teatrale fa si che la conversazione con Giusy Càfari Panìco potrebbe essere interminabile, anche grazie alle forti affinità elettive che fatalmente ci hanno fatto incontrare. Di seguito l’intervista che l’artista ha rilasciato al Corriere del Sud.
Nella sua composita biografia leggo che riveste il ruolo di direttrice artistica del Piccolo Museo della Poesia Incolmabili Fenditure di Piacenza, l’unico museo della Poesia esistente in Europa. Motivo di orgoglio per il nostro Bel Paese, anche se, in fondo, la Poesia non è poi così seguita. In questi ultimi anni numerose case editrici di un certo rilievo hanno chiuso “storiche” collane ad essa dedicate. Cosa ne pensa?
Parlare di poesia nel 2000 può dare adito a diverse reazioni. Da un lato vi è un foltissimo numero di persone che la praticano, e parliamo di migliaia di persone, di appassionati che si dedicano al cimento quotidiano di mettere emozioni sulla carta e spesso pubblicano per piccole case editrici, prevalentemente autofinanziandosi. Sono persone di ogni età e anche molti giovani. Non sempre essi leggono poesie di altri autori, o dei grandi della tradizione italiana e mondiale. Insomma: siamo più un popolo di autori, o aspiranti tali, che di lettori. In questo, forse, c’è una tendenza nel ritirarsi all’interno del proprio ego, tipica del nostro tempo. Tuttavia, negli ultimi tempi, anche grazie ai social network, è ritornato il piacere di trovare nelle parole dei grandi maestri, soprattutto del passato, il piacere di dar voce alle proprie emozioni: insomma di “usare” i grandi poeti per esprimersi. Penso, infatti, a tutte le citazioni su Facebook o Twitter di Alda Merini, di Pablo Neruda, di Kahil Gibran, tanto per citare forse i più gettonati. Se per certi versi questo può far pensare che la poesia si stia esageratamente mercificando in questa sua entrata a sorpresa nel web, non si può negare che ci possa essere un volano di ritorno molto interessante. Negli ultimissimi anni le stesse grandi case editrici, che avevano decretato morta la poesia e ne avevano praticamente sospeso le pubblicazioni, stanno avendo inaspettati successi di pubblico, soprattutto con nuovi autori, spesso di paesi emergenti, che proprio attraverso l’utilizzo del web hanno iniziato a produrre poesia e poi a metterla su carta. Penso ad esempio a Rupi Kaur che ha scritto il best seller mondiale Milk and Honey.
Nel nostro Piccolo Museo, unico in Europa, stiamo cercando di dare voce sia ai nuovi autori che a quelli del passato che molti giovani, come dicevo prima, conoscono solo attraverso piccole frasi sul web, dato che la poesia dell’ultimo secolo si studia poco anche a scuola, grave lacuna dei programmi scolastici. Molti sono interessati ad approfondirne la conoscenza, in particolare dei nostri grandi italiani del Novecento, a cui il museo è dedicato.
Qual è il suo personale ricordo dell’indimenticabile Maria Luisa Spaziani, che nel 2012 la premiò nel Concorso Scrivere Donna di Pescara?
Maria Luisa Spaziani era una donna colta e di grande spirito, molto affascinante e determinata. La sua nota frequentazione con Eugenio Montale non le ha impedito di coltivare una sua personalità indipendente e di alta levatura. Non a caso, per tanti anni è stata candidata al Nobel per la letteratura. Ho avuto occasione di leggerla tanto e di vederla in diverse manifestazioni pubbliche. Era ancora bella e piena di carisma anche nell’ultima parte della sua vita. Non era presente alla mia premiazione in quanto già molto avanti con gli anni. Sapevo, però, che come presidentessa della giuria vagliava ogni scritto con rigore e severità; quindi, vado molto orgogliosa di quel premio, organizzato dalla Casa editrice Tracce di Pescara.
Recentemente ha scritto alcuni testi teatrali insieme all’attore e regista Corrado Calda. Cosa le ha lasciato questa esperienza maturata in un’accezione delle arti letterarie tanto diversa dalla poesia?
Incontrare Corrado Calda, che nella vita è mio marito, ma ancora di più compagno di vita, migliore amico e gemello di anima, mi ha cambiato la vita in tanti modi. Uno è stato quello di avvicinarmi al suo mondo: il teatro e il cinema. Ci siamo incontrati scrivendo a quattro mani uno spettacolo andato in scena a Piacenza: il “Labirinto degli uomini libro”, una piece itinerante in cui andavano in scena a diverso titolo Marcel Proust, Borges, Celine e Dostoevskji. Abbiamo poi scritto insieme “Game Over”, dedicato alla dipendenza dal gioco d’azzardo, diverse sceneggiature e poi la nostra opera più complessa: “Il Tascapane”, andata in tournée per due anni con il TDA Teatro Varese che aveva per protagonista un giovane Giuseppe Ungaretti al fronte della Prima Guerra Mondiale, il quale incontra la folgorazione della poesia nel dramma del conflitto mondiale. Questa esperienza mi ha lasciato un’eredità stilistica, nel senso che ora per me è più facile scrivere dialoghi, che sono caratteristici della scrittura teatrale. E poi ho imparato a guardare i personaggi a 360°, pensando anche all’impatto che possono avere sul pubblico, sia esso in sala o al caldo, dentro le pagine di un libro. Vedere poi un attore che incarna una tua fantasia trasformata in parola è un’emozione fortissima, che dona la vertigine della Creazione divina. Farò in modo di trasportare queste suggestioni nei due romanzi che sto cercando di portare a termine.
Vorrebbe spiegare ai nostri lettori cosa di intende per Realismo Terminale, corrente poetica ideata dal poeta milanese Guido Oldani, che lei segue con interesse?
Il realismo terminale è un’avanguardia poetica nata nel 2010. La riflessione di partenza di Guido Oldani è che in questi ultimi anni gli esseri umani stanno accelerando il processo di accatastamento nelle grandi città, nelle cosiddette megalopoli, circondandosi di oggetti, per loro sempre più indispensabili, e si assoggettano al loro potere. All’umanesimo si è sostituito l’oggettivismo. L’oggetto, trovandosi al centro dell’attenzione dell’uomo, è diventato soggetto, relegando a un ruolo secondario l’uomo stesso; la natura è sempre più vista come estranea e nemica, (ricordata quasi solo quando c’è un terremoto o un’alluvione). Realismo perché tratta di res: cose, oggetti. Terminale, perché i poeti che aderiscono alla corrente osservano la trasformazione in atto del mondo e del linguaggio (conseguente ad essa) che è nella fase del culmine, forse dell’ineluttabilità del non ritorno. In questo senso la nostra antologia “Luci di Posizione” edita da Mursia, la prima antologia del Realismo Terminale - in cui, oltre a Guido Oldani e alla sottoscritta, sono presenti i poeti Giuseppe Langella (fondatore anch’esso del movimento e curatore dell’antologia), Franco Dionesalvi, Marco Pellegrini e Valentina Neri - è stata definita un evento nel campo letterario, poiché era da almeno vent’anni che non veniva dichiarata una nuova poetica e un nuovo manifesto culturale così di rottura, che non si limita solo alla letteratura ma si estende a tante altre arti.
Sempre a proposito di Oldani, mi colpisce la sua acuta osservazione circa il fenomeno sociale, in parte dettato dall’avvento sfrenato della tecnologia, secondo il quale oggi gli oggetti non sono più al nostro servizio, ma siamo noi ad essere forse un po’ schiavi di essi, esasperando quindi il concetto di consumismo. Quali sono le conseguenti metamorfosi nel costume e nel linguaggio, compreso quello poetico?
L’espressione più tipica del linguaggio del terzo millennio, e quindi della corrente del Realismo Terminale, è la “similitudine rovesciata” per cui si paragona un sentimento o un’azione non più alla natura, come accadeva un tempo, ma agli oggetti. Ad esempio invece di usare l’espressione “Sei veloce come il vento”, si preferisce: “Sei veloce come una Ferrari”, invece di “si sta caldi come sotto il sole”, “si sta caldi come sotto un piumone”. Persino Papa Francesco parla del cuore come “un ospedale da campo” o Jovanotti per spiegare quanto ama una ragazza canta “Sei come la mia moto”. È in corso una mutazione linguistica, oltre che antropologica. Gli oggetti sono il nuovo termine di paragone. Questa constatazione, assieme a molte altre (ad esempio l’uso dell’elencazione confusionaria di oggetti a mo’ di catalogo), che non spiego per brevità, ha portato ad una nuova poetica, che utilizza uno stile moderno, tarato sul nuovo linguaggio, che non deifica comunque l’oggetto in senso acritico, ma assiste alla mutazione genetica di questo nuovo mondo, senza allontanarsi da esso. Pone anzi il poeta come ultima sentinella di un umanesimo decadente, che si sta sempre più reificando, cogliendone con ironia la trasformazione e forse per arrivare in tempo ad un’auspicata inversione di tendenza.
I nostri ritmi di vita sono frenetici, tutto scorre e si consuma in fretta. Sulla base di questa considerazione, ritiene che sia giunto il momento di fermarsi un attimo a riconsiderare la qualità della nostra esistenza?
Ho avuto recentemente una disavventura che mi ha insegnato molto. Sono stata ricoverata per sedici giorni in ospedale per una brutta broncopolmonite doppia. Mi ero sovraccaricata di impegni lavorativi e familiari, nonostante fosse estate, il periodo del riposo. Sono stata costretta ad interrompere tutte le mie attività, a lasciare l’ufficio sguarnito, a disertare tanti appuntamenti anche piacevoli, ma impegnativi. Passato lo spavento e i postumi della malattia, nella convalescenza ho assaporato con sorpresa e gratitudine il dono del riposo, dell’ otium, che non a caso era sacro nell’Antica Roma, in quanto solo l’otium consentiva di creare, di raggiungere saggezza, consapevolezza, di potersi dedicare all’arte. In quei giorni, prima di ritornare nell’agone della vita moderna routinaria e spesso senza senso, ho riscoperto le mie passioni, ho letto tanti libri, mi sono ricordata di parti di me sepolte. E purtroppo ho dovuto ringraziare una malattia! Per questo credo che ogni tanto tutti dovremmo ritagliarci uno stop senza che il nostro corpo, più saggio talvolta del nostro cervello, chieda una pausa. Ho visitato anni fa il Santuario dei Pensieri a Pennabilli, vicino a Rimini, una creazione di Tonino Guerra, che proprio lì scriveva: “Bisogna creare luoghi per fermare la nostra fretta e aspettare l'anima" e, nel silenzio, ho compreso il piacere di ritrovarsi con la persona più importante della nostra vita: noi stessi.
Ha pubblicato diverse opere in prosa e a breve sarà dato alle stampe il suo primo romanzo. Può anticipare qualche notizia a riguardo?
Questo mio primo romanzo nasce dalla mia esperienza ospedaliera. Non fornisco altre indicazioni per non togliere suspence. In realtà, ne ho anche un altro nel cassetto, ambientato nell’Italia degli anni venti, in Abruzzo. Entrambi necessitano di una revisione attenta ed accurata. Avendo come quasi tutti gli scrittori anche un’altra occupazione per potermi mantenere, spero di trovare il tempo per riuscire a portare a termine il mio progetto entro l’anno. La scrittura in prosa, tuttavia, è per me molto importante. Mi ci dedico a corrente alternata, ma in passato ho avuto diverse soddisfazione: con un racconto giallo, ad esempio, sono stata in finale al Mystfest di Cattolica.
Il suo libro di racconti Maschile Singolare ha attraversato l’Oceano, arrivando alla Public Library di New York. Un bel traguardo…
È stata una bella soddisfazione per me consultare il catalogo della Public Library e scoprire che era stato catalogato e pronto per essere dato in prestito. Che dire? E’ la Biblioteca che ammiro di più al mondo, dopo averla vista in tanti film famosi, per esempio Colazione da Tiffany. Ed è a New York, una città che amo moltissimo, crocevia di culture, ancora - forse per poco - capitale del mondo. “Sapermi lì”, attraverso il mio libro, è un’emozione che non ha prezzo. Ringrazio anche la comunità italiana che mi ha sostenuto in questo senso. Il mio libro narra di uomini, di un maschile italiano sfaccettato, che penso possa interessare e incuriosire anche un pubblico straniero.
All’interno della dottrina platonica dell’arte vi è inserita un’aperta critica alla poesia. Prima di Platone, il suo maestro Socrate affermava che la poesia non è un autentico sapere, ma una forma di conoscenza instillata dalle divinità; in pratica, quando il poeta componeva era divinamente ispirato. Condivide la posizione del padre della filosofia nei riguardi della poíesis?
La poesia è certamente un dono. Una folgorazione, uno squarcio sull’infinito. Condivido il pensiero sull’origine divina dell’ispirazione. Divina in un senso non religioso, ma comunque portatrice di un mondo misterioso e sacro. Ungaretti parlava del “porto sepolto” come luogo dove attingere la poesia, che nasce dal nostro sé profondo. Per essere più moderni, mi viene in mente Vasco Rossi : “Le mie canzoni nascono da sole, vengono fuori già con le parole” A me succede spesso la stessa cosa: scrivo come se fossi in trance e mi ritrovo una bozza di poesia, quasi compiuta, come se non mi appartenesse, come se l’avessi sognata. Tuttavia, mi dissocio da Socrate quando non considera la poesia come un’arte, togliendo merito al poeta come “artigiano” delle lettere e anche come portatore di messaggio civico. Oggi in tanti scrivono, ma solamente è poeta, per me, chi disciplina l’ispirazione con tecnica, cultura, ricerca di musicalità e originalità. Con una sorta di mestiere. Altrimenti ci si trova di fronte solo a sfoghi emotivi, degni certo di attenzione… ma non è poesia! E’ un arte complessa, che comunque non si può improvvisare. Io non mi ritengo legata a particolari binari, quali rime o canoni metrici (anche se a volte li utilizzo come omaggio alla nostra tradizione e per la musicalità), ma ritengo che, come Picasso si è distaccato dalle regole per dipingere in astratto - ma solo dopo averle studiate -, anche un poeta dovrebbe conoscere gli “strumenti del mestiere” per poi disfarsene, se vuole. Per questo, dopo aver ricevuto il dono della poesia, arriva il “labor limae”, fondamentale strumento di perfezionamento dell’opera poetica. Nel mio piccolo, per esempio, ho impiegato dieci giorni per decidere se utilizzare in una poesia un verbo oppure un altro. Insomma, a mio avviso non ci si può improvvisare in nessun mestiere, tantomeno in quello del poeta. Anche alcuni autori del Novecento, che in tanti percepiscono come poco colti o improvvisati, se si analizzano le loro biografie, si scopre che avevano vasta cultura e sapienza nell’uso della parola, come ad esempio Alda Merini. I doni vanno accettati e poi però rifiniti, levigati, sudati con il sangue, a volte, per poter rendere quella verità a cui a volte ci si può solo avvicinare.
Se l’antica filosofia greca parla di Muse ispiratrici della poesia, contestualizzando la domanda alla nostra epoca, vorrei chiederle quali sono i poeti e gli scrittori che considera in un certo qual modo modelli di riferimento?
Premettendo che sono sempre stata una grande lettrice di classici della letteratura, devo confessare che la mia primissima ispirazione viene dai testi musicali. Sono nata tra la fine degli anni Sessanta e l’inizio degli anni Settanta, avendo nelle orecchie, fin da neonata, i testi di Mogol musicati da Lucio Battisti: sono stati loro i miei primi maestri di poesia. Successivamente, da adolescente, ho amato molto i testi di Enrico Ruggeri degli anni Ottanta. La musica mi ha portato a leggere i testi di Jim Morrison, Paul Simon, Bob Dylan, John Lennon, Mark Knopfler. I miei primi componimenti, le prime suggestioni giovanili, provenivano principalmente da loro. A diciassette anni ho avuto una folgorante passione per Rimbaud e per i poeti maledetti. Gli antichi, in particolar modo, i lirici greci tradotti da Quasimodo e studiati al Liceo, mi hanno trasportato in mondi meravigliosi e arcani. Più adulta mi sono innamorata delle grandi poetesse anglosassoni Emily Dickinson e Elizabeth Barrett Browning che ha in un certo qual modo ispirato il mio primo libro di poesie d’amore “Come la luna di giorno come la luna di notte”. Tra i poeti italiani i miei preferiti sono, in ordine cronologico, Foscolo, Leopardi e Ungaretti, ma amo tutto il Novecento italiano. Per quanto riguarda la prosa, non ho un autore di riferimento per quanto riguarda il mio stile. Sono un’appassionata di Proust e della Recherche, che ho letto due volte rimanendone sempre avvinta in modo irresistibile, e di Dostoevskij. Considerò entrambi gli inarrivabili maestri della letteratura mondiale. Per quanto riguarda i nostri giorni, divoro tutti i libri di Amelie Nothomb e vorrei rubarle l’ironica e istrionica fantasia.
Facendo un salto di diversi secoli, Martin Heidegger definisce, invece, la poesia “arte della parola”, laddove il linguaggio rappresenti lo strumento essenziale per accedere al mondo; in altre parole, la poesia “mette in opera la verità”. Qual è la sua opinione nei riguardi di tale pensiero filosofico, all’interno dell’esistenzialismo ontologico?
La parola è tutto ciò che ha l’essere umano per descrivere il mondo. La parola è essa stessa creazione, individuazione, scoperta; produzione, come suggerisce il significato etimologico della parola greca poíesis. È forma e sostanza. Mi ritrovo nelle parole del grande filosofo quando esalta il carattere poetico del linguaggio, ovvero il suo carattere aprente, disvelante e istitutivo del mondo. Però arrivare al noumeno, alla verità non è dato a nessuno strumento umano, a mio avviso. La parola, la poesia, forse l’arte in genere, è solo un telescopio che ci permette di avere un’immagine semplicemente più vicina della realtà “vera”, che rimane misteriosa. Eroico è il tentativo del poeta che come un esploratore cerca di arrivare al mondo e all’oltremondo con le sue piccole armi umane. La tensione della ricerca è la poesia stessa. Una meravigliosa impresa, commovente ed esaltante. Che lascia quell’incompletezza del sapere, del verificare, che è l’essenza, direi quasi il vero gusto della Fede, dell’Arte. “Di questa poesia mi resta quel nulla di inesauribile segreto” recita Ungaretti nel “Porto Sepolto”, una delle mie poesie preferite.
Vorrei concludere con una domanda in “stile Marzullo”: se lei chiedesse a se stessa qual è il livello di appagamento raggiunto grazie al suo interessante percorso artistico, cosa risponderebbe? La domanda avrei potuto rivolgergliela anche in forma diretta, ma le analisi introspettive a volte forniscono risposte più profonde…
Sono sicuramente appagata della mia attività di operatrice culturale, soprattutto del mio impegno come direttrice artistica del Piccolo Museo Della Poesia di Piacenza, unico in Europa, un gioiello che ci sta dando molte soddisfazioni e anche del mio ruolo di direttrice della collana di poesia “Oltre” di Pegasus Editon e di coordinatrice organizzativa del Premio Internazionale di Cattolica, con cui collaboro da ben dieci anni, e che ormai è il premio letterario più importante d’Italia a partecipazione anche popolare. Mi sembra di dare il mio piccolo contributo alla diffusione della cultura, e cerco sempre di impegnarmi al massimo in questo campo, perché ci tengo molto.
Per quanto riguarda la mia attività letteraria, sono molto felice in questo periodo della mia produzione nell’ambito poetico, all’interno della corrente del Realismo Terminale, di cui parlavo prima. Sento che sto migliorando anche dal punto di vista stilistico e la mia ricerca si sta affinando. Sento di progredire e questo è molto stimolante.
Sono stupita anche dei risultati raggiunti dal mio ultimo libro “Dalle radici al cielo”, che è più incentrato sulla mia ricerca metafisica. Lo sto portando in giro per l’Italia. L’anno scorso In Sardegna è diventato addirittura il titolo di una manifestazione legata alla spiritualità e alla letteratura all’interno del Nuraghe Arrubbiu di Orroli e in autunno sarà presentato a Roma.
Invece, per quanto riguarda la mia attività in prosa, a cui tengo tanto, non sono di certo appagata. E questo per me è un bene, perché ho un pungolo in più per “fare”. Sento di potermi esprimere meglio di quanto abbia fatto finora e ho in cantiere tanti progetti, ma spesso non ho il tempo di portarli a termine. Il romanzo e l’espressione più compiuta della mia espressione letteraria, per il momento, manca all’appello della mia produzione. Il mio prossimo obiettivo è quello di trovare tempo ed energia per occuparmene. Non ho la pretesa di scrivere un capolavoro immortale, ma vorrei riuscire ad esprimere il meglio di me, di lasciare un’impronta del mio essere anche in questa dimensione.
Intervista sul Corriere del Sud - maggio 2017
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