Il 21 giugno è stato pubblicato questo mio racconto per la serie dei racconti estivi di Libertà scritti dai Volatori Rapidi dal titolo "Mai dire Maya", ispirati alla (presunta) fine del mondo prevista dall'antico popolo per l'anno 2012. Per chi non l'avesse ancora letto e per chi lo desidera, eccolo, con il dipinto che ho scelto per illustrarlo: la Battaglia di Argonne di Magritte.
MAL COMUNE MEZZO GAUDIO di Giusy Càfari Panìco
Una livida alba invernale stentava a risvegliare una Piacenza assonnata e nuvolosa. Tullio, in pigiama, si affacciò alla finestra senza vedere, come al solito, anima viva, poi si guardò allo specchio.
La notte insonne aveva lasciato sul suo volto due occhiaie bluastre e profonde; i radi capelli grigi, che di solito portava incollati sul cranio, erano tutti arruffati. Si allontanò con disgusto e, senza nemmeno pettinarsi e farsi la barba, si mise i soliti vestiti, che non cambiava da settimane, e uscì di casa.
Seduto sul solito autobus, guardava infastidito la vecchietta seduta davanti a lui, che continuava a ruminare rumorosamente una caramella. Un raggio di sole fece capolino dal finestrino. Tullio inforcò gli occhiali da sole, disturbato da quella luce accecante, e scese in Piazza Cittadella, per recarsi a fare la spesa al mercato coperto.
Nel reparto panetteria fu sommerso dal vociare assordante di alcuni ragazzi che compravano la focaccia per la ricreazione.
Colorati, chiassosi, impazienti, ridenti. In una parola: irritanti. Mentre aspettava il suo turno, ricordò che da giovane lui non faceva mai merenda, ai suoi tempi non usava!
Aspettò che sciamassero come vespe velenose, poi fece il suo solito acquisto; la commessa, ancora un po’ addormentata, gli infilò nel sacchetto tre panini, due confezioni di biscotti secchi e un pacco di tortiglioni.
A pochi metri dal mercato c’era la filiale della sua banca, quella dove riscuoteva la sua pensione. Pensò che qualcosa da parte per pagarsi il funerale ce l’aveva, senza bisogno di ricorrere a quei parenti lontani che non aveva mai sopportato.
Si sedette di nuovo sull’autobus, nello stesso posto. Stavolta il sole non c’era più: erano tornate le solite nuvole grigie, non si capiva mai se di smog o di vapore acqueo.
L’avrebbe fatto dopo pranzo. Magari stavolta avrebbe trovato più coraggio.
Gli svantaggi di abitare al pianoterra li aveva già calcolati al momento di prendere in affitto l’appartamento, ma l’inconveniente di non potersi buttare dalla finestra senza farsi il minimo graffio non l’aveva considerato. E farlo da un altro posto non gli andava. Voleva morire a casa sua. Almeno quello, dopo una vita così mediocre.
Stavolta pensò al gas. Aprì lo sportello del forno e girò la manopola senza accendere la fiamma. L’odore era fortissimo e prendeva lo stomaco, ma Tullio resisteva.
Al piano di sopra, il cane dei vicini continuava ad abbaiare, facendogli perdere la concentrazione. «Ma basta, cane maledetto»! ebbe la forza di urlare, persino in quel momento fatidico. Fastidioso, quel cane incontinente, che gli faceva la pipì sullo zerbino, fastidioso come tutti i suoi vicini con cui, grazie a Dio, parlava e litigava solo una volta all’anno, alla riunione di condominio.
Aumentò la gittata di gas, ma oltre a sentire il puzzo non succedeva niente.
«Va beh» disse tra sé e sé «facciamola per bene questa cosa.» Si sdraiò per terra, con la testa dentro il forno. Cominciò a sentire la testa pesante e fu colto da un tale senso di nausea che gli fece salire dallo stomaco alla bocca il pasto appena consumato. Non riuscì a trattenere un conato e si sfogò nel lavandino, poi socchiuse una finestra. Un colpo di vento, presago del temporale, la spalancò completamente e riempì la cucina di aria fresca.
Completamente demotivato, Tullio spense il gas e si impose di riprovarci il giorno successivo.
Ma era inutile: non aveva il coraggio! Aveva provato anche con la corda, ma il soffocamento gli faceva impressione e quella volta si era anche sbagliato a fare il nodo scorsoio, che lui mica era un boyscout!
I barbiturici… Buona idea! Ma in farmacia senza ricetta non glieli avrebbero mai dati e il medico non glieli aveva mai voluti prescrivere.
«Neanche stavolta!» sospirò tristemente. E aspettò che venisse buio per andarsene a letto.
Durante le notti, tutte insonni, di solito rimaneva sdraiato, in silenzio, a guardare il soffitto. Ma stavolta accese la radio su un’emittente a caso, tanto per dare un po’ di fastidio ai vicini che durante il giorno lo disturbavano con schiamazzi di bambini e strani spostamenti di mobili.
«Non lo dicono perché non possono ammettere che sia tutto vero, ma la Nasa lo sa perfettamente.» Una voce femminile traduceva in sincrono le parole di uno scienziato americano. «I Maya non hanno effettuato calcoli basandosi su riti religiosi, ma su scienze matematiche di cui erano maestri, confermate dai più illustri studiosi internazionali. Le avvisaglie si vedranno nel cielo. L’azzurro comincerà ad assumere sfumature verdognole, giorno dopo giorno, finché la mattina precedente il cielo sarà completamente verde … fino al tramonto.» «E l’umanità?» chiese l’intervistatore italiano. «Sterminata dall’impatto con un enorme asteroide» rispose la traduttrice, mentre lo scienziato pronunciava la stessa frase in inglese con voce tremante. «Ma questo è solo l’aspetto scientifico» interloquì un pastore sudamericano. «Si udrà fortissima la tromba dell’Arcangelo Gabriele: la sentiranno tutti e sarà l’inizio della fine…»
Il segnale si interruppe improvvisamente. Tullio prese in mano la vecchia radiolina a transistor e cercò spasmodicamente di sintonizzare meglio il canale. Niente. Quella strana emittente sembrava scomparsa .
«E se fosse vero? » si chiese speranzoso.
Dalla stanza accanto si sentivano i gemiti di due giovani amanti. «Godete godete: tanto ne avrete per poco» urlò sorridendo mefistofelicamente.
Da quel momento la fine del mondo diventò per lui una vera e propria ossessione. Comprò tutti i testi apocalittici che trattavano dell’anno 2012, e tutte le notti studiava le profezie di Nostradamus cercando di trovare in ogni terzina un nuovo significato; l’Apocalisse di San Giovanni, poi, non aveva più alcun segreto per lui. A furia di documentarsi si era convinto: il momento era arrivato. Finalmente.
Era talmente certo di questa notizia che non aveva più tentato di farla finita da solo. Dal panettiere lasciava passare avanti i ragazzi vocianti senza più brontolare, tanto poi non avrebbero più rotto le scatole né a lui né agli altri. Anzi, una volta aveva persino detto loro «Prego prego…» ridacchiando.
Le persone che lo incontravano per strada, che lo avevano spesso additato per la sua stranezza e per il suo abbigliamento scuro e trasandato, non potevano fare a meno di notare sul suo volto rugoso un insolito sorriso, quasi beffardo, senza capirne il motivo.
Passarono mesi di trepidante e speranzosa attesa, finché arrivò il tanto sospirato 20 dicembre 2012.
Tullio era in gran forma. Dalla settimana precedente su tutti i telegiornali e su internet circolavano voci sull’effettivo passaggio dell’asteroide vicino alla terra. La Nasa aveva rassicurato l’opinione pubblica: dalla stazione spaziale internazionale si stava provvedendo in merito, non c’era nessun pericolo. Il presidente della Repubblica aveva rassicurato gli italiani, a reti unificate: «Non siamo più nell’anno mille!» aveva ammonito con solennità. «Invece di occuparsi di queste superstizioni occorre risolvere i problemi reali del paese: la disoccupazione, l’immondizia di Napoli, il PIL!»
Lo dicevano per evitare il caos, pensava Tullio. Proprio come avevano avvisato alla radio quella notte. Nel frattempo le notizie della caduta dell’asteroide, minimizzate dalla televisione e dai giornali, si stavano diffondendo a macchia d’olio su internet e per le strade.
All’alba del giorno successivo, Piacenza era meno sonnacchiosa del solito. Tutti sembravano essere usciti di casa in anticipo, per vedere che aria tirava. Il cielo era di uno strano colore: verde, nonostante lo smog cittadino, nonostante le nuvole.
Tullio non riuscì a trattenere un urlo di gioia: «Sììì!». Finalmente qualcosa che avrebbe scosso la noia dei suoi giorni, finalmente anche gli altri avrebbero provato il suo malessere di vita, finalmente sarebbe riuscito nel suo intento.
Andò a far la spesa con un sorriso smagliante. Si accorse che la panettiera, allungandogli il sacchetto, aveva la faccia terrorizzata, probabilmente aveva ascoltato da poco il telegiornale.
«Ma lei non è preoccupato?» gli chiese. «Io?» e Tullio dopo una lunga pausa rispose: «Mai stato più felice in vita mia!»
Tornò a casa e guardò soddisfatto quel verde che preannunciava l’apocalisse e che sovrastava Piacenza da giorni. Che importava se gli altri davano la colpa all’inceneritore. Lui sapeva.
Alle ventitré in punto si mise il pigiama per andare a letto, come al solito. Indossò quello più bello, per l’occasione.
Il condominio era stranamente silenzioso, come se la paura, che nell’ultima settimana si era diffusa ovunque, avesse tolto la voce anche ai bambini e ai cani.
Con una pace mai provata, Tullio appoggiò la testa sul cuscino e, prima di addormentarsi, con una risatina sulle labbra, sussurrò: «Mal comune mezzo gaudio!», poi si abbandonò dolcemente, per la prima volta dopo anni, tra le braccia di Morfeo.
Dopo aver dormito saporitamente per ore, Tullio si svegliò e, al buio, non poteva capire che ora fosse. Era ancora vivo, purtroppo. Sbuffò.
Ma magari per poco. Rimase in attesa, incerto se riaddormentarsi di nuovo o aspettare che il destino facesse il suo corso, cogliendolo magari nel sonno. Splendida fine! Meglio del nodo scorsoio che non gli riusciva mai.
Un prolungato squillo di tromba lo fece sussultare. Poi un altro. E un altro ancora. Fino a diventare dieci, quindici, venti o forse più. Tanto da costringerlo a tapparsi le orecchie.
L’arcangelo Gabriele, si disse!! Erano strani suoni, però: meno solenni di quello che si aspettava. «Si è ben modernizzato» pensò. Prima di aprire gli scuri delle finestre che davano sulla strada, se lo immaginò lì fuori, con le ali immense, pronto a dare il via al Giudizio Universale, attorniato dalla sua divisione angelica. «Pepperepeeeee!»
Spalancò la finestra e, accecato da un sole vivo, rimase senza fiato.
Centinaia di macchine facevano i caroselli per tutta la città, con le trombette dello stadio e con i clacson. Un grande urlo liberatorio echeggiava da tutte le parti. I festeggiamenti per i mondiali di calcio non erano stati nulla al confronto: tutti erano scesi in strada, e si abbracciavano gli uni con gli altri. I padri portavano i bambini sulle spalle, le donne urlavano di gioia, i ragazzi gridavano «Chi non salta Maya è!».
Sconcertato e deluso, Tullio chiuse la finestra e accese il televisore.
Su tutti i canali, in mondovisione, Barack Obama, il presidente degli Stati Uniti, spiegava in diretta i dettagli della missione più segreta e difficile della storia : la deviazione della traiettoria dell’asteroide che avrebbe potuto distruggere la Terra.
«Ringrazio tutte le nazioni del mondo, che hanno fornito uomini, idee, basi logistiche: dalla Russia alla Cina, dall’Unione Europea al Giappone. Sì, ce l’abbiamo fatta! E’ una vittoria del mondo, una vittoria dell’umanità!»
«Ma va a….» Tullio si vestì e fece colazione, poi scese sulla strada e si diresse alla fermata dell’ autobus.
Circondato dalla folla, camminava a fatica e dovette persino dare qualche spintone. Un ragazzo di quelli che andavano a comprare la focaccia lo riconobbe, lo abbracciò e gli diede una pacca sulle spalle, urlandogli felice: «Ce l’abbiamo fatta, siamo vivi! Vivi! ».
Tullio gli rispose mestamente «Sì, sì…» camminando a capo chino tra la folla festante. E mentre aspettava l’autobus, sospirò con aria rassegnata: «Neanche stavolta!».
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